27 agosto 2012

Il giardino delle bestie

"Di questi tempi, in Germania, ci sarebbe quasi da augurarsi di essere un cavallo".
Così scriveva, nel suo diario, il 5 Agosto del 1934, l'ambasciatore Americano a Berlino, William Dood.
Nato povero, aveva guadagnato col lavoro la sua posizione sociale diventando professore  universitario e supremo storico del 'Vecchio Sud'.
Roosvelt lo inviò in Germania, come ambasciatore, perchè incarnava lo spirito americano dell'epoca: pace, lavoro, rispetto per tutte le culture, razze e religioni.
Inoltre, in gioventù, Dood aveva vissuto e studiato a Lipsia (La città di Martin Bora) e apprezzava la cultura tedesca.
Il giardino delle bestie è un saggio che racconta il suo primo anno in Germania.
L'anno dell'ascesa di Hitler, l'anno della notte dei lunghi coltelli.
Giunto in Germania speranzoso di poter effettuare un'azione moderatrice sul nuovo regime nazista, in un primo momento si ritrova un entusiasta ammiratore del clima di rinascita costruito dai nazisti.
Berlino è splendida, i tedeschi sono dinamici, colti, educati ed è un piacere passeggiare con loro, discorrendo, nel Tiergarten, l'immenso parco nel centro di Berlino.
Tiergarten, il giardino degli animali, ossia, delle bestie.
Larson è abile nell'incanalare la narrazione con scrupoloso rispetto di fatti date e fonti storiche rendendo la lettura simile a quella di un romanzo piuttosto che di un saggio.
L'ambasciatore Dood piano piano apre gli occhi sulla realtà della Germania nazista.
Anche la figlia dell'ambasciatore, una bella e giovane divorziata, inizia la permanenza tedesca infatuandosi degli splendori e degli agi dell'ambiente diplomatico.
Ma, pian piano, la paura dell'onnipresente potenza della Gestapo, delle SA e delle SS penetra fino al cuore dell'ambasciata USA.
Dood è coraggioso, inizia a trattare i nazisti con fermezza, protesta per le aggressioni ai cittadini americani ed agli ebrei, ma in patria solo Roosvelt lo sostiene.
Il Dipartimento di Stato, fondamentalmente antisemita (ah, se qualcuno si prendesse la briga di studiare la nascita ed i primi 20 anni dello stato di Israele nei suoi rapporti con gli USA, quante cretinate in meno si leggerebbero) lo osteggia.
Dood insiste per vivere del suo stipendio e per evitare sprechi, proprio negli anni in cui gli USA affrontano la depressione e la siccità che avrebbe ispirato Steinbeck a scrivere "Furore". 
I suoi sottoposti, invece, vivono nel lusso.
Per i ricchi gentilemen di Washington, Dood è un provinciale fuori posto.
Non gli credono quando denuncia le atrocità naziste.
Se la ridono delle persecuzioni ebraiche.
Per loro la missione di Dood è semplice: convincere Hitler ad onorare i debiti con le banche USA.
"Facci ridare i soldi, Will, sei lì per quello, non per evitare guerre o salvare dalla forca qualche ebreuccio"
Il finale della storia è noto.
La Germania degli anni 30 era disarmata e debole, ma le potenze occidentali, in nome di una singolare "Pace per il nostro tempo" le permisero un massiccio riarmo e la costruzione della più potente macchina bellica della storia moderna, la Wehrmacht.
I nazisti accumularono atrocità su atrocità nel loro stesso paese, dimostrando a tutti già nel 1934 cosa avrebbero fatto in seguito.
Consiglio vivamente la lettura di questo libro e non per le informazioni e lo stile o il valore letterario.
Ve lo consiglio perchè voglio condividere con altri un po' della mia angoscia, nel riconoscere come del tutto possibile la ripetizione di eventi simili in questo momento storico.
"Di questi tempi, in Germania, ci sarebbe quasi da augurarsi di essere un cavallo" 
Scriveva l'ambasciatore.
Perchè i tedeschi del 1934 vedevano i cani nei cani. E i cavalli nei cavalli. Li amavano, ne avevano compassione e nessuno li maltrattava.
Ma avevano dimenticato come riconoscere l'uomo nell'uomo.
Anni ed anni di parole d'odio iniettate nei cervelli da tutti i media hanno grandemente contribuito a quello che poi fu.
Una divisione di SS non si costruisce solo con cannoni, carri tigre, corpi di uomo ed uniformi.
Bisogna parlare agli uomini, prima.
Con parole d'odio.
E la Storia dimostra che le parole d'odio funzionano.

21 agosto 2012

L'Italia, il Diavolo e Martin Bora

Il Colonnello della Wehrmacht Martin Bora è un personaggio letterario disegnato in parole e azioni dalla Scrittrice Italo - Americana Ben Pastor ( Maria Verbena Volpi Pastor, all'anagrafe) che mi ha fatto compagnia per qualche mese con le sue avventure.
Ora che ho letto tutti i romanzi di cui è protagonista (mi manca una raccolta di racconti), posso scrivere qualcosa a riguardo.
Martin Bora non è Schindler.
E' un soldato estremamente competente ed terribilmente pericoloso per gli eserciti alleati.
E' per colpa sua e di troppi 'uomini giusti con la divisa sbagliata' se la Germania ha resistito così a lungo agli Alleati.
Martin Bora è senz'altro una figura affascinante.
Bell'uomo, giovane, ricco, Colonnello e comandante di reggimento ad un'età in cui i giovani italiani trovano il primo lavoro malpagato (nel 50% dei casi, nell'altro 50 neppure quello), coltissimo sia in teoria che in pratica, ossia capace di mettere a frutto la sua educazione nel concreto, che sia l'arte, la musica, l'indagine poliziesca o il campo di battaglia, vive, apparentemente, secondo rigidi binari di etica che lo conducono alla resistenza al Nazismo sia in forma strettamente privata che compiendo missioni per la fazione antinazista dell'Abwher, il servizio segreto militare guidato dal leggendario ammiraglio Canaris, che finirà impiccato dalle SS con un fil di ferro, nudo,  pochi giorni prima della fine della guerra.
Ci sarebbe quasi da innamorarsi di questo personaggio tormentato, sofferente in privato per una moglie fredifraga che abortisce i suoi figli mentre lui è al fronte, sofferente per la perdita del fratello, caduto in Russia sotto i suoi occhi, sofferente per la perdita della mano sinistra strappatagli da una bomba dei partigiani italiani e a causa della quale non potrà più suonare il piano.
Per fortuna, Ben Pastor non è mai caduta nella tentazione di assecondare la propaganda degli ex soldati della Wehrmacht: "Noi con le atrocità naziste non c'entriamo, quelle erano le SS a farle, noi abbiamo difeso l'Europa Cristiana dalle orde bolsceviche".
La Wehrmacht di Bora spara.
Quando il nostro colonnello acciuffa due partigiani intenti a macellare (letteralmente) un suo informatore li fa impiccare al primo albero senza pensarci due volte.
E si prodiga fino allo stremo per trattenere gli americani col suo reggimento, ossia, nella pratica, consentendo ad i suoi disprezzati ed odiati colleghi delle SS di continuare lo sterminio ad Auschwitz un po' più a lungo.
Bora è un uomo che si rende perfettamente conto di questo dato di fatto.
Non può disertare.
Non può ribellarsi.
Non può nemmeno farsi da parte.
Neppure quando i partigiani gli fanno saltare la mano sinistra se ne torna a casa.
Neppure quando la Gestapo gli suggerisce di cominciare a farsi i cazzi suoi con avvertimenti in perfetto stile mafioso o peggio.
L'uomo, bisogna riconoscerlo, ha una sua etica.
Come investigatore persegue la giustizia.
Come soldato detesta la morte e le atrocità.
Ha una paura folle della Gestapo ma non permette minimamente che questa paura cambi il corso delle proprie azioni, tra le quali qualche salvataggio di ebrei di troppo per i gusti degli uomini in nero.
Per molti aspetti, quindi, Martin Bora sembra proprio un Eroe Italiano.
Involontariamente, ma oggettivamente, alleato col Diavolo.
Il Diavolo, che in Italia, si può descrivere e riassumere con: "Gli Italiani Stessi".
Pensateci.
Una nazione civile, colta, trasformatasi in un nido di belve folli di sangue: la Germania degli anni 40.
Una nazione civile, prospera, trasformatasi in un nido di struzzi impazziti, incapaci di collaborare in più di due alla volta per invertire la corsa verso il baratro: l'Italia.
Una follia senz'altro meno grave, incomparabilmente meno grave. Ma altrettanto cruda e reale.
I nostri eroi, gli eroi celebrati più o meno ogni stagione ad ogni anniversario della morte, hanno avuto paura ma sono andati avanti, collaborando con uno Stato e servendo un Popolo che erano, in sostanza, i primi loro avversari.
Forse, Ben Pastor non sfugge al suo italico senso di tragica ironia.
Ed ha dipinto un personaggio che di tedesco ha il senso del dovere e l'uniforme.
E che di Italiano ha l'anima.
Martin Bora, aspetterò volentieri le tue prossime avventure ('The thin sky' è il titolo provvisorio del prossimo romanzo) e sono curioso di sapere come sei riuscito a scappare con la tua compagnia da Stalingrado.
Sono anche curioso di sapere come sei sopravvissuto alla caduta di Berlino e mi piacerebbe davvero incontrarti, quarantenne, al comando di un reggimento della neo costituita Bundswehr a metà degli anni cinquanta.
Insomma, i tuoi demoni non sono proprio i miei, ma mi piace leggere come li affronti.

13 agosto 2012

Pit Stop in Umbria

Finalmente, siamo riusciti a 'consumare' la nostra vacanza smartbox.
Destinazione: Umbria.
E' stata una vacanza breve e non troppo faticosa nonostante il viaggio, andata e ritorno, sia stato di 1200 km e rotti.
Non abbiamo avuto problemi di traffico, l'autostrada era libera se si eccettuano i nostri bravi italioti a 100 km orari sulla corsia centrale con quella di destra liberissima.
Che dire, l'Umbria è una terra bellissima.
Abbiamo visitato Perugia, Spello, Assisi, Castiglione sul Lago e Todi.
Tutte località bellissime che ti fanno venir voglia di tornare e completare l'opera.

In Umbria, come ovunque in Italia, del resto, si mangia benissimo per tutte le tasche.
L'Umbria è certamente più avanzata di Matera, turisticamente parlando. Ma non sono irraggiungibili.
Come da noi nei Sassi, anche lì ci sono auto nei centri storici.
E, per quanto più pulite, anche in quelle bellissime cittadine ci sono le carte a terra.
Notevoli, però, i percorsi meccanizzati pedonali che collegano i centri storici ai parcheggi fuori porta.
Per me è stato importante rivisitare i luoghi francescani a breve distanza dal Campo Scout.
Ma non come verifica, dato che non c'è miglior verifica del Campo.
Ma come ristoro.
La situazione è difficile ma sarebbe stata peggiore senza questa sosta, questo riposo.
Grazie a tutti per il bellissimo regalo.



3 agosto 2012

La cittadella della gioia





Il rumore, nell’igloo, è assordante.
Solo i tuoni riescono a sovrastare per qualche secondo il fragore della pioggia battente.
La luce dei fulmini li precede e conto i secondi tra lampo e tuono: sempre più di venti.
I fulmini cadono lontano.
Bene.
La pioggia mi culla e sono solo pochi i pensieri che ricordo prima di scivolare nel sonno.
Sono ancora una volta ad un campo scout.
Per una combinazione fortunata mi sono ritrovato in un autobus mezzo pieno da un reparto in festa.
Fortunata davvero.
Non conoscevo nessuno dei ragazzi del Reparto se non di vista.
Ma nell’autobus che ci portava al campo l’atmosfera era così serena che ho immediatamente iniziato a dimenticare i miei guai.
Poi, la fatica frenetica dei primi giorni, dedicati al montaggio del campo.
Cambusa, tavolo di reparto, fontana con rubinetteria, portale con issa bandiera, il primo magico tramonto.




In punta di piedi mi ritaglio il mio spazietto in una Comunità che prende forma nelle prime ore del campo.
Il tempo è inclemente: inziamo con un caldo soffocante, con la polvere che si incolla al sudore sulla pelle.
Ma gli unici giorni di pioggia di Luglio li prendiamo in pieno noi al campo.
Prima le nuvole, poi un acquazzone notturno con una pioggerella insistente per la giornata intera.
Nel tardo pomeriggio sembra che vada meglio, ma il bivacco è illuminato presto più dai lampi che dalla fiamma.
Ci ritiramo al sicuro nelle tende.
Ho fatto il mio ultimo giro di ispezione tra le tende con le prime gocce d’acqua che già vibrano nell’aria.
Ed eccomi qua, assieme ad altri 29, in una tempesta coi fiocchi.
La pioggia nel bosco spaventa col suo fragore, ma lava via anche un sacco di croste dal mio cervello stanco.
Bisogna essere lucidi, al campo.
Per evitare di confondere la meravigliosa realtà che si costruisce in pochi giorni tra i boschi con quella, terrificante, che ci attende in Città.
La Realtà dei boschi esiste per contrastare e correggere quella della Città.
Ma non esiste davvero nel mondo reale.
Però, per qualche giorno, è bello abbandonarsi al sogno che questi valori non siano così disprezzati e negletti nella Città dei Sassi come altrove.
I ragazzi sono meravigliosi.
Sotto un cielo plumbero da cui insiste la pioggia, il loro sorriso basta ad illuminare i cuori e a scacciare la fatica.
Le attività non vengono interrotte dalla pioggia, solo un po’ ostacolate. Le missioni di Squadriglia, la Deliziosa (yum!) gara di cucina, il percorso Hebert, le Scoutiadi, anche l’Hyke di coppia per i ragazzi dell’ultimo anno, tutto procede mentre il tempo, progressivamente, migliora.
La legna si asciuga, ma non è un gran vantaggio dato che i ragazzi hanno potuto imparare ad accendere il fuoco e a cucinare anche con la legna umida per non dire bagnata.




A fine campo lo staff è stanco, ma non risente dello stress della stanchezza.
L’ultima sera la Santa Messa conclude il nostro campo in serenità.
Resterà per sempre, nella mia memoria, la danza del Reparto, spontanea, gioiosa, mentre stavamo cantando, appunto,  “Danza La Vita”.
Ecco l’immagine che scelgo di portare con me.
I Ragazzi del Reparto Pellicano, Matera 2, che si alzano in piedi cantando e danzano assieme.
Danzano assieme nel centro della cittadella della gioia che hanno edificato in nove giorni di campo senza temere pioggia nè sole.
Ed io non posso che ringraziare loro e la mia Comunità Capi per avermi consentito ancora una volta di prestare il mio Servizio.
E, anche se penso che non possa bastare, terrò il tempo e starò pronto...


Tutto Scorre, di Vasilij Grossman


Questo struggente racconto rappresenta l'eredità morale dell' autore di "Vita e Destino".
Un vecchio deportato torna a Mosca dopo 30 anni di Gulag.
Nelle 144 pagine del breve romanzo, le atrocità sovietiche sono narrate senza risentimento, senza traccia di odio da parte del narratore - vittima.
Anche per i delatori più sordidi Grossman afferma la necessità di non emettere giudizi affrettati, ma di comprendere, meditare, capire.
Terribile, poi, la descrizione dell'Holdomor, il terribile genocidio per fame organizzato da Stalin contro le popolazioni contadine ucraine tra il 1929 ed il 1933.
Parole atroci che descrivono fatti atroci pur senza traccia di rabbia e desiderio di vendetta.
Grossman descrive, afferma, racconta l'orrore senza giudicare i carnefici. Racconta il Gulag indicando responsabilità ma non accanendosi a richiedere la vendetta sui colpevoli. Queste pagine mi hanno profondamente commosso e meritano senz'altro un posto speciale nella mia biblioteca.




Quanta sofferenza inutile, descritta qui.
"Tutto ciò che è disumano è assurdo ed inutile!"
Ecco il sunto di questo mirabile libro.
Narra di tenebre spaventose, ma brilla in contrasto, il pensiero dell'autore.
In quanto umano.
Logico.
Utile.