Dopo un paio di telefonate con Marco e Giulia, decidemmo che Giulia mi avrebbe dato un passaggio con la sua vecchia Uno color canna di fucile.
Usata più per appartarsi col poveraccio di fidanzato di turno che per altro (grazie al suo sedile reclinabile ‘con una mano sola’ ci teneva a precisare).
Con addosso due fazzoletti scarsi di stoffa, uno sopra ed uno sotto l’ombelico, Giulia mi accolse con un bacione e un flusso ininterrotto di chiacchiere che stoppai subito.
«Fermati al benzinaio sulla via de La Martella per favore».
«Perché? Dobbiamo andare in pizzeria a Timmari, mica a Bari: non dobbiamo fare benzina».
«No, ma ho un problema di carrozzeria».
«Ma chi ti capisce, Tetto’!»
Comunque, il benzinaio era di strada, le indicai il parcheggio deserto e buio dopo le pensiline e appena lei si fermò mi slacciai la cintura di sicurezza e iniziai a sbottonarmi la castissima camicetta.
Il mio piccolo streap tease la sorprese e mi resi conto che sarebbe stato meglio dirle che mi dovevo solo cambiare.
«Oggi è festa». Le dissi: «E mi vesto da festa».
«Che peccato, Tetto’, speravo che stessi facendo coming out e che mi avresti supplicato di leccarmela, sono dieci anni che so che ti piacerebbe».
«Sì, sì, ma non oggi, aspetta un altro po’. Beh, come sto?» Dissi gettando sul sedile di dietro il jeans e la camicetta.
«Finalmente te la sei messa la mia gonna: che è successo, Tetto’? Oggi la vuoi dar via per forza?»
«Mo’ sarei io la troia? Vedi che sei più nuda di me. E poi sei sessista!»
«Marta dice parolacce, Marta dice parolacce, Akela, Akelaaa, Marta dice parolacce!»
«Muoviti Zoccole’, ho fame».
La Uno partì sgommando mentre Giulia mi dava un ceffone sulla coscia sinistra:
«Visto che queste non sono per me per chi sono? Per Marco o per Luca?»
«Luca no, non mi prendo i tuoi scarti».
«Oh, ma guarda, è diventata subito preziosa la mia troietta».
Decisi di dire la verità, o almeno tutta la verità che ero disposta a confessare e Giulia poteva capire.
«Le cosce non sono per i maschi, sono per me».
I pochi secondi di silenzio mi fecero capire che, almeno in parte, mi ero spiegata.
Giulia è praticamente mia sorella e non potevo ammettere che tra noi calasse tristezza nemmeno per pochi secondi.
Ma era difficile fermare Giulia o almeno la sua linguaccia: «Ah, ma allora ho capito, è tutta una mossa romantica. Lei ama lui che ama lei ma non è capace a dichiararsi finchè non gli viene così duro che si dichiara il suo cazzo al posto suo.
Già vedo le pubblicazioni, tra cinque anni: il Dottor Marco Ferrulli e l'ingegneressa Marta Montemurro annunciano il loro matrimonio, astenersi rattusi. Da Via degli Oschi a Via Gramsci, auguri e figli maschi!»
Sorrisi chinando il capo.
Le mie gambe erano segnate dal Cammino e non sarebbero state da esibire così, con una abbronzatura irregolare, croste e graffi.
Beh, farle vedere a Marco era una buona idea.
Ma non era seduzione, solo il primo pezzo di me che rompeva la crisalide.
Le luci della città si spensero alle nostre spalle e la stretta strada si incuneò nella campagna estiva.
Il profumo delle stoppie bruciate mi investì assieme all’aria tiepida che si riversava dai finestrini abbassati.
Il profumo della Basilicata è arido, ma io non lo sapevo ancora: lo avrei imparato solo immersa in quello umido dei boschi piemontesi.
Un bolide attraversò il cielo.
«Cazzo, hai espresso il desiderio?»
Purtroppo sì.
La pizzeria era a Timmari, in aperta campagna, immersa in un oliveto e assediata da una gigantesca colonia felina.
Le zanzare erano legione ma, ormai, ero abituata ai nugoli di insetti della route e non ci facevo più caso.
«Oh, ricordati che non hai i pantaloncini, tienile chiuse le gambe» mi istruì Giulia.
Arrivammo più o meno contemporaneamente agli altri e vorrei poter dire di aver attirato l’attenzione generale ma non fu così.
Tutte le scolte erano in tiro e non c’era nemmeno un jeans in vista. Abbondavano hot pants e minigonne e anche la Capo Fuoco ostentava un abitino estivo a fiori.
Mi sarei fatta notare di più nella mia solita, castissima, tenuta a base di jeans larghi e camicia col colletto chiuso fino all’ultimo bottone.
Qualcuno, però, mi notò.
A Marco gli venne un mezzo colpo quando mi sedetti al suo fianco e ammutolì arrossendo.
Dalla sua bocca uscì solo una specie di ‘Ciao’ smozzicato.
Trovai l’esperimento interessante.
Era il mio miglior amico e condivideva con Giulia la relazione umana più piena della mia vita.
All’epoca non ero capace di portare la minigonna e la mia seduta era più generosa di quanto necessario, ma non provavo nessun imbarazzo, nessuna vergogna.
E nemmeno voglia di provocare.
Ero così: nasone, cosce, tette e culo.
E un cuore di misura sotto-standard.
Marco non osò nemmeno voltarsi, guardando dritto di fronte a sè, muto.
D’accordo: non mi aveva mai vista con abiti succinti addosso.
E nemmeno io sapevo davvero cosa dire.
Magari gli avrei potuto passare un bigliettino stile scuola elementare con su scritto ‘ti vuoi mettere con me sì/no’.
E, poi, che cosa speravo di ottenere? Che mi dicesse: ‘sei bella?’ Ma io sono brutta. Che mi dicesse: ‘ti voglio bene?’ Ma questo lo sapevo già. Che mi dicesse: ‘sono innamorato di te?’ Sarei scappata via a gambe levate.
Per fortuna, l’elefante Giulia arrivò sul più bello con Luca, evidentemente già istruito a non fare troppi commenti.
«Hai visto Marta quanto è figa? Che peccato che se ne parte eh? Ormai per te è troppo tardi».
Marco, con me, era timido a livello patologico ma non era un moccolone.
«Mi aspetterà, come tutte. E statt tranqui’ verrà anche il tuo turno».
Mi indispettiva che fosse così naturale con lei e così muto con me.
Qualcosa si materializza nella pancia come una cattiva digestione.
Giulia rideva con Marco e io mi feci riempire da un attacco di gelosia rabbiosa da farmi piantare le unghie delle mani nella carne delle cosce.
Non mi sono messa ‘sta gonna per Marco. (Davvero?)
Non sono seduta qui per Marco. (Certo)
Di lì ad una settimana la distanza fisica tra me e Marco sarebbe stata equivalente a quella sentimentale.
Di lì ad una settimana io stessa sarei stata ad una distanza abissale dalla me seduta a quel tavolo per una pizza tra scout.
Nel nostro Gruppo c’è tutt’ora questa tradizione scema di farsi una foto tutte assieme tornati dal Campo e mostrare le gambe graffiate, scorticate, abbronzate a metà.
Partecipai per la prima volta dalla pizza post campo del secondo anno di reparto quando mia madre mise il veto alla faccenda.
Ci mettemmo in fila in una caricatura di sfilata di moda in un continuo allegro chiacchiericcio.
Per una volta ero vestita normalmente: come le altre.
Lì, in fila, pensavo che: «Andare al Politecnico è quello che voglio. Andare a Torino è quello che voglio. So che lasciare il Clan sarà una mazzata. So che lasciare Giulia, Luca e Marco sarà una ferita».
Sapevo che la non relazione con Marco non si sarebbe risolta quella sera.
Ma non capivo perché mi sentissi così angosciata mentre mi mettevo in posa.
Anche se non era tardi eravamo tutti assonnati.
Dopotutto, 12 ore prima eravamo ancora in treno reduci da una route mica da ridere.
Non c’era molta voglia di trattenersi a chiacchierare.
Ma dovevo salutare, quindi iniziai a saltare da un capannello all’altro per dare appuntamento a Natale.
Mi pesava: erano i miei fratelli e le mie sorelle Scout con cui avevo condiviso gli ultimi 11 dei miei 19 anni di vita.
Salutai Roberta e Anna, che avevo accolto nel branco, bimbette spaurite, quando ero Capo Sestiglia dei Pezzati.
C’era Imma, arrivata da Garaguso ed entrata nel Reparto quando ero Vice delle Aquile.
Salutai i Capi e quando fu il turno di Raffaele mi disse: «Gesù Marta, sto entrando nella massima età di rischio infarto ma è proprio vero che il Signore ha fatto grandi cose per noi poveri peccatori».
Beh, almeno qualcuno, due complimenti era in grado di farmeli.
«La mia mail ce l’hai, Marta, non ti faccio raccomandazioni inutili ma scrivimi. E Buona Strada».
つづく