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28 giugno 2016

#vedovero: la nuova app per ciclisti e pedoni

Cari ciclisti (e anche pedoni), siete stanchi di rischiare la vita sulla strada e vorreste fare qualcosa per migliorare la sicurezza stradale?
Usate la nuova app #vedovero.

Associata alla rivoluzionaria webcam con copertura a 360° winterhawk che va montata sul casco, #vedovero vi consentirà di registrare le infrazioni stradali commesse dagli automobilisti.

Grazie a sofisticati sensori basati su  telemetri, giroscopi e gps installati sulla webcam, l'app è in grado di calcolare con l'approssimazione massima di 1km/h la velocità degli automobilisti in avvicinamento ed in sorpasso, determinando i violatori dei limiti di velocità ed i colpevoli di sorpasso azzardato, fotografandone la targa ed i connotati ed inviando tali dati in maniera assolutamente sicura e cifrata direttamente ad una banca dati apposita della Polizia Stradale.
Ma c'è di più: #vedovero è convenzionata con il Ministero dell'Interno: l'1% delle sanzioni erogate saranno accreditate direttamente all'utente di  #vedovero mentre la notifica di decurtazione punti patente, sospensione o ritiro della medesima ed eventuale sequestro o blocco amministrativo del mezzo saranno notificati immediatamente all'automobilista indisciplinato via sms/email.
Certo, per usare #vedovero anche tu dovrai rispettare alla lettera il codice della strada, ma è un piccolo prezzo rispetto ai 100 - 150 € (lordi) di royalties che una passeggiata in bicicletta di una mezz'ora può portare nelle tue tasche.
E se ti investono sappi che la webcam è in grado di resistere e trasmettere le tue ultime immagini: avrai giustizia!

Fai anche tu la tua parte, compra winterhawk e installa #vedovero!

Nota: causa estrema congestione dei server al momento #vedovero trasmetterà solo doppiaggi del limite di velocità e sorpassi a distanze < di 5 cm.


#vedovero, © me and Brindavid winterhawk srl

29 giugno 2013

Lo Zaino

Sono anni che, saltuariamente, scrivo raccontini scout.
Da oggi, per festeggiare i cinquantamila visitatori sul mio blog, inizio un nuovo esperimento.
Sto scrivendo una serie di storielle scout, magari collegate tra di loro, ma le pubblicherò non in ordine 'logico', ma in ordine cronologico di scrittura, con label "L'assalto alla cambusa".
Divertitevi e criticatemi.





In tanti anni la cosa che per me è rimasta sempre uguale è il pomeriggio prima della partenza per il Campo Scout.

E la notte.

E il mattino.

Lo so, ogni zaino è diverso: Branca EG e Branca RS richiedono approcci differenti.

Contenuti differenti.

Ma il tempo per fare lo zaino è lo stesso.

I pensieri dello zaino gli stessi.

Ho avuto tre zaini, vediamo, in quanti? 

25 anni di scoutismo?

Sì.

Tre zaini.

Un vecchio zaino della fanteria, comprato usato da Michele La Stoppa, senza spallacci imbottiti e senza intelaiatura, per i primi anni di Reparto.

Quando si bagnava (e capitava spesso) puzzava terribilmente.

Non so che fine abbia fatto, probabilmente si è disintegrato ed è stato gettato via.

Poi, uno zaino Ferrino, di nylon verde, con telaio di alluminio.

Mi ha abbandonato alla fine dell’Hyke del CFM.

Diciamo che ho rotto il telaio di alluminio per fatica …

Ma non era da gettar via: è stato conveniente riciclato per qualche ragazzino del Reparto.

Poi, un altro Ferrino, con telaio interno.

Il mio zaino.

Conosco il mio zaino. 

So dove vanno a finire le cose.

“Vorrai dire: dove sono conservate le cose?”

No, intendo esattamente dove vanno a finire.

Metto il sacco a pelo in fondo ed al suo fianco la sacca notte, poi la giacca a vento a contatto con la schiena ed il resto del vestiario al centro. 

In cima cibo e spiritiera, cassetta del pronto soccorso ed impermeabile.

In genere, l’impermeabile è l’unico che resta in cima, alla sosta per il pranzo. 

La spiritiera è regolarmente abbracciata al sacco a pelo: ma si sa, per me, mangiare e dormire ...

Ci metto un sacco a fare lo zaino perchè perdo tempo.

Perdo tempo perchè penso anche ad altro.

Francamente, penso al “Chi me lo fa fare”.

Ci penso sempre.

Ci penso mentre metto in atto i trucchi del mestiere: le batterie della macchina fotografica nella tasca della cintura dello zaino.

I Fiammiferi e l’accendino in piccole tasche separate.

Le spille da balia, come da manuale.

Ago e filo. L’ago è magnetico, perchè una bussola di riserva può far comodo.

Il filo, non tanto per ricucire bottoni, ma per sgonfiare le bolle ai piedi durante la notte... 

E non vi dico come: certi vecchi trucchi si tramandano solo da Capo a Ragazzo...

Rivedo la cassetta del pronto soccorso: per certe cose mi sento tranquillo solo se controllo due volte.

Consumerò una quantità industriale di repellente antinsetti, lo so, come so che esaurirò la pomata per le contusioni e l’acqua ossigenata.

Se posso, un po’ di borotalco.

A portata di mano, sempre nella cintura, metto le caramelle.

Quelle del commercio equo e solidale.

L’ideale per un boost zuccherino quando le forze svaniscono di fronte all’ennesima salita a sorpresa.

Arrotolo l’isolante e mentre lo assicuro col cordino (di canapa, non bariamo!) allo zaino mi viene in mente che non ho ancora sistemato il mio rotolo di corda di riserva.

Va nella stessa tasca del coltello, un banale opinel da cinque euro con cui, però, faccio di tutto. Ci taglio il pane, il cordino (quando ci vuole ci vuole), la carne, la frutta e il formaggio. E, no: non l’ho mai usato come bisturi... beh, quasi mai.

La luce elettrica, la doccia, il letto ed il frigorifero, niente di questo mi mancherà.

Non c’è posto nello zaino per molte cose.

L’ansia è troppo ingombrante, non ci entra.

Nemmeno la viltà spicciola, quella che ti fa voltare dall’altro lato in autobus quando un cretino fa un commento razzista su un poveraccio col suo ingombrante borsone di speranze e merce contraffatta.

Però lo zaino non è ancora chiuso.

Nel frattempo, l’ansia ha ancora campo libero.

Inizio a ricoprire la cartina del percorso col nastro adesivo.

La mappa IGM è stampata su un normale foglio A5.

La impermeabilizzo col nastro adesivo, un gesto meccanico, perfetto per far evaporare l’ansia.

Quando finisco di ricoprire la carta col nastro adesivo avvolgo la mappa attorno alla bussola. Anche questa resta a portata di mano in una tasca della cintura dello zaino.

Quando si marcia, sotto la pioggia, lo sguardo alla mappa in basso ed alle cime in alto è pura consolazione: sapere, una volta ogni tanto, nella vita, dove si è e dove si sta andando.

Mi concentro per evitare che la paura si infiltri tra cinghie e chiusure lampo nel mio zaino.

La paura che tutto quello che accadrà, portando lo zaino, sia una inutile o, peggio ancora, dannosa menzogna.

Che tutto lo Scoutismo infonda una perniciosa idealità laddove dovrebbe inculcare solo tecnica e che strappi via da corpi ed anime i sani anticorpi dell’egoismo e della amoralità così necessari alla quotdianità contemporanea.

Provo gli spallacci, ma so che è un gesto inutile: l’assestarsi del peso sulle spalle è mutevole, variabile, continuo.

Rimetto a terra lo zaino, in verticale.

Inizio a chiuderlo, verifico le cerniere, tiro al massimo le cinghie sotto cui ho incastrato l’isolante.

E spero di lasciar fuori l’ultima paura.

Che quello sia il mio ultimo zaino del mio ultimo campo Scout.

16 giugno 2012

He Was My Brother


Il Tenente Roberts  sbucò dal portellone come un nuotatore dal fondo del mare. Diede una rapida occhiata attorno per avere conferma visiva di quello che sapeva già, ossia che tutti i suoi fossero sani e salvi e si accese un sigaretta, mettendoci un sacco di tempo: gli tremavano le mani nel sole accecante del novembre africano.
Tentava di darsi un contegno, in cima alla torretta del Crusader Mk II.
Ispirò la prima boccata di fumo e non fece neppure in tempo ad espirare che iniziò a vomitare sui fianchi della torretta del carro armato.
Al primo conato ne seguirono molti altri.
Roberts aveva ventiquattro anni ed era appena sopravvissuto al suo primo combattimento tra carri armati.
Il Sergente Petersen, un reduce di Dunkerque coetaneo dell’ufficiale, lo sollevò di peso dalla torretta e lo aiutò a scendere dal carro armato.
“Tenente, venga giù, si metta all’ombra e beva un po’ d’acqua.”
Roberts si lasciò accompagnare e si sedette nella sabbia sul lato in ombra.
I 4 tank del suo plotone erano fermi e distanziati tra loro in ordine sparso, esattamente dov’erano quando la rapida battaglia coi carri armati italiani era finita pochi minuti prima.
Peteresen era contento del suo Tenente. Vomitare dopo aver appena scansato una morte atroce è perfettamente normale, che sia la prima come la centesima volta.
Roberts gli era stato subito simpatico.
Da novellino, aveva ascoltato con umilità, non era stato arrognate con gli ‘uomini’, dei ragazzini di vent’anni terrorizzati dal frastuono dei propri stessi carri armati e prima di andare al circolo ufficiali aveva sempre cura che tutti i suoi soldati fossero ben sistemati.
Cosa ancor più notevole, era riuscito a non far ammazzare nessuno dei suoi nell’assalto frontale alle posizioni dell’Asse, poco prima, nel corso del suo primo vero combattimento.
Quindi, il Sergente fu ben lieto di aiutare il suo superiore a rimettersi in piedi.
“Signore”
Il Tenente tremava come una foglia
“Signore, si faccia forza, tra cinque minuti dobbiamo essere di nuovo in moto.”
“Gli altri?”
“Non lo so, noi ci siamo tutti ma …”
“Ma?”
“Il Capitano non risponde e sulla destra ci sono troppi carri in fiamme per essere solo dei dago! 
Il Tenente Mitchell grida nella radio dall’inizio di questo casino e...”
“Va bene, grazie, ora va meglio”.
Roberts si alzò, si appoggiò al carro, come per ricevere energia dal motore da 340 HP.
Gli avevano detto che gli italiani sarebbero scappati al primo colpo, invece il reggimento si era schiantato contro una resistenza durissima.
Dall’ M14 italiano in fiamme arrivò assieme, col vento del deserto, una zaffata nauseabonda di carne bruciata e grida animalesche.
Roberts vomitò di nuovo e Petersen fece fatica a non imitarlo.
Ma, questa volta, Roberts non si sedette, si pulì la faccia con i guanti e si avviò a passo svelto verso le urla seguito da Petersen.
L’M14 bruciava con una figura umana indistinta che ardeva mezzo fuori dal portellone anteriore.
La torretta, che l’esplosione delle munizioni aveva scagliato lontano non bruciava quasi più.
A pochi metri di distanza la scena che bloccò per un istante il correre dell’ufficiale.
Un uomo, coperto di sangue agonizzava nella polvere mentre un altro, si agitava urlando al suo fianco. Tentava, in ginocchio, di farsi ridare da un fante inglese una borraccia, mentre un altro fante  si divertiva a prenderlo a calci.
Roberts non conosceva i soldati di fanteria lì attorno, ma si precipitò, di corsa, urlando: “Fermi, Cristo, fermi, cosa cazzo state facendo, fermii!”
Petersen di rimando, cominciò anche lui ad urlare.
Va bene strapazzare un po’ i mangiaspaghetti, ma così no, e poi il Tenente aveva parlato.
“Brutti figli di puttanta, fermi lì”.
Ma i due uomini arrivarono praticamente prima delle proprie urla.
Roberts scippò la borraccia al primo soldato mentre Petersen dovette trattenersi dal placcare il secondo.
L’italiano disteso per terra era un ufficiale con le gambe bruciate ed il dorso coperto di ferite.
Petersen ne aveva visti tanti ridotti così: le corazze dei carri armati italiani non erano saldate, ma imbullonate. Quindi, spesso capitava che i proiettili inglesi non ne perforassero la corazza ma che l’urto del colpo comunque spezzsse i bulloni che si trasformavano in una grandine mortale per l’equipaggio all’interno.
Ma non perse neppure dieci secondi a guardare il moribondo, perchè già urlava contro i due fanti: “Pezzi di merda che non siete altro, vi faccio arrivare a Tripoli a calci in culo! Io vi..”
E voltò le spalle al suo Tenente.
Roberts, con la borraccia in mano, si chinò verso l’italiano che piangeva.
Era scuro, sporco di fuliggine e, ad un’occhiata più attenta, abbastanza bruciacchiato pure lui. Gli porse la borraccia. Ma non aveva nessuna intenzione di mettersi a guardare l’altro, che si dissanguava sulla sabbia, non aveva nessuna intenzione di guardare in faccia l’uomo che aveva ammazzato. 
L’italiano, invece di bere, si gettò subito di fianco al commilitone morente cercando versargli l’acqua tra le labbra bruciate.
Roberts non capiva una parola della lingua di Dante, ma comprese che erano parole di vero affetto e disperazione. 
Gli cadde l’occhio sul corpo del ferito ed un conanto di vomito lo soffocò.
Il puzzo di bruciato, gomma e carne, del resto, erano lì lì per farlo vomitare comunque e pensò che fosse arrivato il momento di risalire sul proprio tank.
Fu un piccolo scintillio a cambiare tutto.
Su quel corpo straziato, bruciato, rosso solo di sangue, un luccicare dorato a forma di giglio.
“Non può essere” Pensò Roberts.
Si costrinse a guardare.
Si inginocchiò di fianco all’uomo agonizzante.
La nausea era scomparsa, sostituita da un’angoscia violenta.
Sulla divisa bruciata e sporca di sangue brillava, inconfondibile, il giglio scout.
ASCI, c’era scritto sotto.
Roberts iniziò a frugarsi freneticamente nella giubba, finchè trovò quel che cercava.
L’altro italiano pareva non essersi accorto di nulla, come il ferito.
Il Sergente Petersen, invece, non riusciva proprio a capire cosa stesse facendo il suo capo.
Va bene impedire di maltrattare i prigionieri, ma mettersi a curare moribondi non è proprio il caso.
Nelle mani del Tenente comparve una specie di spilla dorata.
Petersen si avvicinò, per capire meglio cosa stesse succedendo.
Roberts sapeva che l’uomo morente non poteva capirlo, ma almeno sperava che potesse ancora sentirlo.
Gli agitò davanti al viso il giglio scout e l’ufficiale italiano se ne accorse.
Per un breve attimo cambiò espressione e disse qualcosa, qualcosa che Petersen non capì.
Poi, con un gorgoglio soffocato, spirò.
E restò solo il pianto dell’altro uomo.
Roberts deglutì e prese con se il giglio italiano dal corpo immobile.
Petersen gli era alle spalle.
Sconcertato, decise di non intervenire e di attendere.
Roberts pensava, ma pensava anche che non c’era nulla da pensare.
Doveva alzarsi, badare ai suoi uomini e nient’altro.
Anni dopo avrebbe ricostruito meglio i pensieri di quei pochi secondi, ma una cosa gli rimase per sempre nel cervello.
L’espressione del viso del suo Sergente quando gli fornì in quattro parole l’unica spiegazione di cui disponeva:
“He was my brother”



EDIT: Immagine proveniente da QUI, dove ho rintracciato anche il testo originale del racconto scout che ha ispirato la mia rivisitazione. Me lo aveva fatto leggere il mio Capo Reparto quasi 30 anni fa e ho potuto ritrovare il testo originale grazie ad un commento qui sotto.

2 agosto 2011

Sirius Black alla fontana del campo di reparto

Non ho mai permesso, da Capo Reparto, che la mia gavetta fosse lavata dai ragazzi.
In nessun caso, in nessuna circostanza.
Ovviamente, accetto l'ospitalità delle squadriglie sia a pranzo che a cena, per tutta una serie di ragioni tra cui il non aver tempo, al campo, per cucinare, è solo l'ultima.
La più egoista tra le motivazioni è che è semplicemente bellissimo pranzare con una squadriglia.
Ma facciamo finta che lo si faccia semplicemente per controllare che i pasti siano cucinati e consumati decentemente da tutti, che il fuoco sia gestito correttamente e che le cose, insomma, vadano per il verso giusto in squadriglia.
Detta così è più professionale.
Una sera di qualche anno fa, quindi, mi ritrovai attorno ad uno scalcinato tavolo da campo mentre osservavo preoccupato le mosse di una squadriglia maschile che non sembrava avere tra le sue priorità quella di consumare cibi cotti e forse neppure cibi in generale.
Ovviamente, è sempre meglio non interferire nel lavoro di una squadriglia.
Chiariamoci: se vedo un ragazzino addentare un alimento caduto nella latrina, intervengo.
Se vedo il fuochista giocare al giovane piromane intervengo.
Ma se vedo il cuciniere servire un pollo più vivo che cotto ma in compenso salato più del mar morto non credo che rifare da me quello che lui ha mal fatto serva a migliorare il prossimo pasto da lui cucinato.
Certo, guadagno un pasto decente ma non svolgo il mio servizio.
Così, mentre stavo portando la discussione su come evitare di dover mangiare pollo crudo al sale la prossima volta, mi accorsi che avevo anche da capire come mai l'ultimo arrivato nella squadriglia non avesse spiccicato parola.
Era dall'inizio del campo che ci davo pensiero.
Ragazzino introverso, quasi muto e di certo non coccolato dalla squadriglia.
Comunque, niente di particolarmente grave: un ragazzino su due si comporta così al primo campo.
Così, finito di cenare ( praticamente per primi, data la brevità dei tempi di cottura ) mi fiondo alla fontana per lavare le mie stoviglie ( e diluire in un litro d'acqua succhiato direttamente dal rubinetto il mezzo chilo di sale che avevo in corpo ).
Ho appena il tempo di finire che la fontana è presa d'assalto dai malcapitati incaricati di lavare le pentole della squadriglia.
Si fa a turno, non temete: un grande ed un piccolo assieme...
Faccio un passo indietro per uscire un po' dal lieve chiarore di torce e lampari.
Anche se è stata la prima a finire, la squadriglia che mi ha offerto la cena è l'ultima a presentarsi a lavare le pentole ed è in coda, in attesa.
Ovviamente, il mio taciturno fratellino è in piedi accanto a me con una montagna di stoviglie da lavare.
Non ricordo come, ma attaccai bottone.
Durante la conversazione fu nominato Harry Potter.
Per me, all'epoca, solo un nome.
Certo, mi ripromettevo da tempo di leggere un po' qualcosa dell'idolo dei ragazzi, ma non ci ero ancora riuscito.
"Quindi stai leggendo un romanzo di Harry Potter?"
La domanda scatenò una specie di diluvio di parole.
Precise.
Costruite con logica e proprietà di linguaggio.
Io non sarei stato capace di spiegare sommariamente la trama di ben tre romanzi con tanta chiarezza ed in così poco tempo.
Aveva dovuto interrompere la lettura per partire per il campo poco prima di aver terminato "Harry Potter ed il prigioniero di Azhkaban " ma aveva fatto in tempo a scoprire la verità su Sirius Black.
Era entusiasta di questo nuovo personaggio soprattutto perchè così Harry avrebbe finalmente avuto un Padrino ed un Tutore.
Durante la conversazione tutti i miei timori si dissiparono sotto la chiarezza di pensiero che vedevo sbocciare attraverso la descrizione critica di questo romanzo.
E iniziavo davvero ad incuriosirmi per questo Sirius Black forse più che per lo stesso Harry Potter.
Arrivò il suo turno per lavare i piatti.
Avrei incontrato Sirius Black qualche anno dopo, ma non ho mai dimenticato chi, dove e quando me l'avesse presentato.
Credo sia grazie a quel (l'allora )  ragazzino in coda per lavare i piatti, credo, che ho letto i romanzi di Harry Potter.
Mi sono divertito molto.

PS: due sere dopo, le salsicce a cena erano ancora al sangue ma decisamente più commestibili.