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12 settembre 2025

Capitolo 3 L’incontro, parte 1

 

Marta riceve una email


Ora so perché mi sono presentata agli esami quasi sempre calma e tranquilla: ho consumato tutto il nervosismo e l’ansia di una vita in quella settimana di settembre passata nell’attesa.

La vissi in uno stato di eccitazione e terrore fusi assieme, determinazione e codardia abbracciati, speranza di trovare una persona seria e paura di trovarne una troppo seria.

Il Collegio aveva una saletta informatica con ben cinque computer operativi e un paio in disuso.

Io avevo il mio portatile, ma non era ancora il momento di avanzare richieste particolari a Suor Agata, dovevo prima dimostrare di essere degna di fiducia.

Quindi, mi abituai ad usare uno dei computer del collegio mettendo in atto tutte le precauzioni del caso per cancellare le mie tracce.

Il Lunedì pomeriggio riferii dei miei successi, il martedì avevamo fissato la data dell’incontro: la mail di conferma del martedì pomeriggio era scritta in maniera pacata: «Cara bambina: io lavoro, devi aver pazienza fino a sabato mattina».

L’appuntamento era fissato  alle bancarelle dei libri usati di Corso Siccardi.

Alle nove in punto.

Meglio evitare il caos delle bancarelle (all’epoca a me sconosciute) di via Po, meglio evitare il centro.

Faceva caldo anche se era Settembre, un caldo estivo appiccicoso che speravo di aver lasciato mille km più a sud.

E invece no.

«Ah, già, allo studentato vivi in doppia, vero? Vedi di ritagliarti un po’ di privacy e di mandarmi qualche fotografia, ti lascio la scelta della posa».

Per il momento ero sola. 

La mia compagna di camera sarebbe arrivata a metà mese per l’ultimo appello estivo.

Avevo tutta la privacy che volevo e, se quel Sabato le cose fossero andate nel modo giusto, non ne avrei avuto più bisogno.

Scattai qualche foto, le cifrai, poi le copiai su un floppy e le spedii da un pc della saletta informatica.


10 settembre 2025

Capitolo 2 Primo Volo, Giulia, Domenica 2 Settembre 2001

 

Giulia parla con Michela, la Capo Fuoco


Per Giulia, andare a Messa senza Marta fu estraniante.

La sera prima le aveva scritto una lettera e non aveva ancora capito se, dopo, si era sentita meglio o peggio. Aveva guadagnato il suo solito posto nel coro ma, al suo fianco si era seduta la Capo Fuoco e non quella specie di armadio ambulante a cui somigliava la sua più cara amica.

Michela si era seduta di proposito nel posto lasciato vuoto da Marta: il muso lungo di Giulia era così evidente che le chiese subito: «Stai bene uagne’?»

Michela aveva quella odiosa capacità di farsi raccontare la verità, parlando così, senza preamboli, diretta e sorridente anche quando rivoltava il coltello nella piaga.

«No, mi manca assai Marta».

«Dovete seguire le vostre strade e poi siamo a messa tutti assieme, noi qui e lei a Torino. Oh, non ti sto dicendo che è la stessa cosa eh, solo che non è mica morta. Per ora è così, vi vedrete a Natale, poi, nel tempo, che ne sai?»

«Non sei molto rassicurante».

«No. Sono pagata per farti vivere felice, non per rifilarti pietose bugie».

«Pensavo che i Capi lavorassero gratis».

«Sono pagata in millimetri quadrati di Paradiso».

Ci fu un breve silenzio. Giulia aveva iniziato a intuire quali fossero le motivazioni dei capi scout che si accollavano gratuitamente un carico di lavoro enorme, ma non aveva ancora un’idea precisa. Poi, Michela proseguì: «Giulia, un’amicizia come la vostra potrebbe durare tutta la vita o spegnersi. Dipende da te, da Marta e anche dal caso. Puoi serenamente fare di tutto per starle vicina anche a mille km di distanza mentre vai avanti per la tua strada. Ma alcune delle mie più care amiche dei tempi del Clan vivono a Matera e sì e no se ci salutiamo per strada».

Giulia pensò che le parole della Capo Fuoco non fossero di grande aiuto.

Ma, almeno, erano vere.

Dopo la Messa si trattenne con Luca e Marco. 

Lo squilibrio si notava già.

Marta poteva uscire di casa praticamente solo dopo la Messa domenicale per un aperitivo e aspettava questa occasione per tutta la settimana.

In teoria, poteva uscire anche il sabato sera, eccetto il piccolo dettaglio che per lei il coprifuoco scattava alle 23, ossia all’orario in cui i suoi coetanei uscivano di casa.

I ragazzi andarono lo stesso a prendere l’aperitivo e a Luca venne un’idea: 

«Oh, chiamiamo Marta? Vediamo come sta?»


Giulia, Luca e Marco al bar


«No!» 

Giulia aveva risposto d’impulso.

Secca.

Luca non replicò.

«Ci starebbe troppo male, dopo». 

Lo precisò con una voce molto più morbida, quasi a scusarsi dello scatto di poco prima.

«E poi domani ha il test d’ammissione, lasciamola studiare, sarà per un’altra volta».

Marco annuì e i tre amici parlarono d’altro.


7 settembre 2025

Capitolo 2 Primo Volo, tarda estate 2001Marta, primi di settembre 2001

Marta davanti al collegio

 

Il viaggio fu molto faticoso, tra famiglie che tornavano dalle ferie e altri studenti che, come me, partivano per la grande avventura dell’Università.

Ci mancavano solo le mestruazioni.

Arrivata a Torino, trascinai le mie valigie fino al Collegio delle suore dell’Immacolata cambiando due autobus piuttosto affollati.

L’edificio mi dava soggezione ma l’interno non era squallido come avevo temuto.

Dalla reception uscì Suor Agata, con cui avevo già parlato al telefono qualche giorno prima.

Era una donna sulla cinquantina asciutta ed energica.


Marta e Suor Agata


A giudicare dalle foto di missione nel suo piccolo ufficio, non aveva fatto sempre la balia alle studentesse di ingegneria.

Mi accompagnò in camera a lasciare le valigie, poi mi fece fare un giro del Collegio: la sala mensa, quella informatica, le cabine telefoniche, la sala tv, la biblioteca, le sale studio e la cappella.

Il mio status di Scolta AGESCI referenziatissima mi aveva garantito l’iniziale benevolenza di Suor Agata.

Quella donna mi diede una forte impressione di coerenza, forza e assoluta mancanza di ipocrisia.

Il regolamento del Collegio aveva questo incipit: Sono ammesse ragazze che siano in grado di fornire testimonianza di sicura moralità, proseguiva con riferimenti a introdurre, ritenere, diffondere stampa giudicata pornografica e  a mantenere un comportamento ed un abbigliamento consoni e coerente all’ambiente religioso. 

Ma non mi sembrava niente di terribile rispetto a casa mia.

«A parte il regolamento ho solo un’altra cosa da dirti: se non riesci a studiare vieni da me, se hai nostalgia di casa, del fidanzato, vieni da me: non te ne stare in camera da sola».

Oltre che di conservarne la benevolenza, mi venne voglia di conoscerla.

Ringraziai e mi diedi da fare per pulire a fondo la stanza già più che decorosa e a svuotare le mie due valigie riponendo il contenuto nei miei spazi. Avevo preferito la doppia alla singola per poter risparmiare ben duecentomila lire  al mese sulla mia borsa di studio.

Mia coinquilina sarebbe stata una ragazza di un paesino vicino Cuneo. Era al secondo anno di ingegneria aerospaziale e tornava a casa sua tutti i venerdì per presentarsi a Torino il lunedì mattina.

A pranzo mi ritrovai, più che in una mensa, in una grande sala comune con un’unica gigantesca tavolata a ferro di cavallo a cui le venti studentesse ospitate dal Collegio potevano sedersi senza sgomitare.

Oltre a me c’era solo un’altra matricola, altre 2 sarebbero arrivate l'indomani.

Alessia veniva dalla Sardegna e in due facevamo tre nostalgie.

Il pranzo, cucinato da Suor Francesca, fu squisito.

Stremata dalla notte di treno, mi addormentai per un paio d’ore e mi svegliai stordita e malinconica.

Mi preparai un caffè e, prima di metterlo sul fornello elettrico, andai alla ricerca di Alessia, ma non era in camera.

Dopo il caffè mi sentii meglio. La stanza era praticamente a posto.

Mi sedetti alla piccola scrivania e aprii il libro dei temi d’esame di ammissione.

Iniziai a studiare e non smisi per anni.

Verso le sei bussarono alla porta. 

Pensavo fosse Alessia, invece era suor Agata che approvò visibilmente la scrivania coi libri aperti e gli appunti.

«Vieni a prendere il tè freddo di Suor Francesca, lo fa lei, non è comprato. E qui dentro fa così caldo».

Non me lo feci ripetere due volte.

Mentre scendevamo le scale (io ero al secondo di 4 piani) mi fece qualche domanda esplorativa iniziando dal motivo per cui avevo scelto il Politecnico.

Spiegai che avevo scoperto di avere un certo talento per la programmazione, i computer e l’informatica e che in quel momento avrei potuto solo scegliere tra Torino e Milano. Mio Padre mi aveva incoraggiato.

Ed eccomi qua.

In refettorio trovai anche Alessia e devo ammettere che le suore fecero di tutto per farci sentire accolte e tranquille fino a nominare ex convitte che, dopo la laurea in Ingegneria, erano tornate felici e contente a vivere con un buon lavoro nel paesello di provincia da cui erano state strappate.

Ricordo nitidamente quel primo Sabato sera torinese.


Marta alla sua scrivania in collegio



Sola, nella mia camera, non squallida ma di certo nemmeno accogliente, guardavo l’immenso flusso di macchine sul vicino Corso.

Faceva molto caldo.

Per fortuna c’erano le zanzariere alla finestra, altrimenti sarei stata dissanguata da quegli odiosi insetti che si affollavano alla frontiera.

A quell’epoca, chiamare (e ricevere telefonate) dai cellulari era costosissimo e mi guardai bene dal cedere alla tentazione di sentire Giulia o Marco.

Mandai un sms a Giulia, dalla cabina telefonica a scheda chiamai i miei e fu tutto.

Per risparmiare sul peso mi ero portata solo un vecchio tascabile che avevo quasi finito di leggere durante il viaggio, l’indomani sarei andata a cercare qualcosa in biblioteca.

La stanchezza mi aiutò a prendere sonno presto mentre i rumori alieni di una città sconosciuta mi ricordarono fino all’oblio che non ero più a casa.

Dopo colazione andai in cappella per la Messa ma erano anni che un sacerdote non veniva a celebrare l'Eucaristia la domenica: saremmo andate nella vicina Parrocchia di Santa Teresa.

Scortate da 4 suore, mi incamminai di buona lena con Alessia e, dopo pochi minuti, entrammo in Chiesa.

Il Cielo era nascosto dalle grandi chiome degli alberi che erano ovunque, non ero abituata a tutto quel verde.

Dopo la Messa chiamai i miei, chiesi la cortesia di far visita in biblioteca e riuscii a scovare una copia di Quo Vadis. Dopodiché,  mi asserragliai dietro i libri e studiai fino a sera.

Lunedì 3 Settembre 2001, di buon’ora entrai al Politecnico per il test di ingresso.

L’elenco dei nomi era affisso in più bacheche nel gigantesco cortile esterno del Politecnico.

Di fianco al mio c’era scritto: Aula 3. 

La cercai sulla grande mappa all’ingresso e ci misi pochi secondi ad orientarmi: quasi 12 anni di scautismo qualche frutto lo avevano pur dato.

L’Aula 3 era enorme, mi sembrava anche più grande del Cinema Duni.

Corpi e Voci  erano ovunque.

Poi le voci svanirono, anche i corpi. 

Anche il mio.

Il test iniziò e iniziò il mio futuro.

Se il buon giorno si vede dal mattino, il mio giorno tra quelle mura iniziava abbacinante.

Andai avanti domanda dopo domanda con pochi dubbi.

Finii il test con mezz’ora di anticipo e corsi a dare la lieta novella ai miei: ero sicurissima di essere passata.


つづく


4 settembre 2025

30 giorni alla pubblicazione de 'La Ricostruzione'

 



⏳ Mancano 30 giorni.

Il 4 ottobre Marta arriverà finalmente su Amazon KDP, dopo anni di appunti, stesure, revisioni, cambi d’ambientazione e ripensamenti.

Forse, da qui ad allora, mi scriverà una casa editrice (sarebbe un piccolo miracolo 🙃). Ma, a meno che non succeda, la strada è tracciata: autopubblicazione.

E io non vedo l’ora di condividere con voi questa storia che mi accompagna ormai da anni.

💡 Nel frattempo potete leggere i primi capitoli gratis su Wattpad e qui sul mio blog

3 settembre 2025

Capitolo 2 Primo Volo, tarda estate 2001: Marta, 27 Agosto 2001

 

La lite tra Marta e la Madre


Mia madre mi tirò giù dal letto alle sette e mezzo del mattino del mio ultimo lunedì Materano.

Dopo una notte insonne in treno, dopo una settimana di sacco a pelo e tenda ed una media di dodici km al giorno di sentieri di montagna zaino in spalla, dormire otto ore era considerato troppo per una brava figlia di famiglia.

Quasi un atto blasfemo.

Non la sentii entrare in camera, fui svegliata dal fragore delle tapparelle tirate su con rabbia e dalla luce accecante del sole che mi investì in faccia.

La sveglia di soprassalto mi riportò allo stato d’animo della sera prima e la mia reazione fu feroce: una litigata nucleare con tante urla, suppellettili rotte e porte sbattute.

Le litigate di questa portata sono state rarissime e sono figlie di una combinazione di due fattori: precisa volontà di mia madre di trascendere tutti i limiti e mio stato di estrema esasperazione.

Il primo componente è piuttosto comune, il secondo piuttosto raro.

Per la prima volta, mia madre corse il rischio di vedersi restituire uno dei numerosi ceffoni elargiti negli anni con monotona generosità.

La litigata durò tutta la mattina e mio padre ebbe il suo bel da fare per calmare gli animi.

Le cose non migliorarono nel pomeriggio. Il veleno nell’aria non smise di accumularsi.

Vivevamo in uno stato di tensione che anche la proverbiale pazienza di mio Padre stentava a controllare.

Nel corso della settimana mi congedai senza freddezza da Marco che promise di scrivermi.

Mi venne a trovare una mattina in vespa, ‘per fare una pausa studio’.

Fu molto gentile, incoraggiante, affettuoso e amichevole come al solito.

E io pure.

Ci demmo appuntamento a Natale, si mise il casco e partì voltandosi a salutare con la mano.

Il congedo con Giulia fu più doloroso.

Nessuna di noi aveva altre amichette del cuore.

Avevamo fatto assieme tutte le scuole partendo dall’asilo, le elementari e le medie fino alle superiori.

Sorella Scout, sorella di fatto.

Quando mi venne a salutare l’ultimo giorno d’agosto, io ero in vantaggio: volevo andare a Torino, non sopportavo più il clima di casa mia, volevo capire chi ero.

Giulia avrebbe iniziato a breve Scienza della Formazione Primaria, probabilmente all’Università di Basilicata a Matera.

Nel recente passato aveva cercato di convincermi ad iscrivermi a Ingegneria a Bari, ma lì, all’epoca, non c’era Ingegneria Informatica e, come diceva lei stessa, ero un piccolo genio dei computer, non del cemento armato.

Mi ero preparata a consolarla, ma, modestamente, era una Scolta, oltre che mia amica.

Facemmo le forti, girando attorno al vuoto imminente cincischiando di email, cellulari, videochiamate via computer, di tutti gli strumenti per mantenersi in contatto.

Prima di salutarci mi raccomandò: «Tetto’, ti lascio andare perché penso che così prima o poi sarai felice. Solo che se non ci sarò io a prenderti a calci in culo tutte le volte che te lo meriti come farai?»

«Nessun altro lo farà al posto tuo, zoccole’, ti toccherà venire a Torino».

Mentivo.

Quando tornai a casa mi chiusi in camera e piansi a lungo. 


Marta e Giulia si salutano prima della partenza per Torino


Giulia, Marco, gli scout.

Lo studio, la piscina, i libri.

Mio Padre.

La mia vita.

Mi ero lasciata convincere di non aver nessun diritto agli affetti e neppure a una serata in un locale per festeggiare il compleanno di qualcuno.

Sapevo di altri che sarebbero partiti per il test di ingresso e che sarebbero, poi, tornati a casa in attesa dei risultati.

Io no.

Avevo già ottenuto il posto letto al Collegio delle suore e la borsa di studio.

Se non avessi superato l’esame di ammissione al Politecnico mi sarei semplicemente iscritta a matematica alla Statale.

Poi, francamente, avevo bisogno di distaccarmi da casa ed ebbi buon gioco a fare la ragazza laboriosa ed economa che preferiva risparmiare un altro viaggio Torino Matera e viceversa.

L’ultimo giorno passato a Matera fu straziante.

Volevo partire, volevo restare.

Volevo vivere.

E dovevo vivere.

La scena più dolorosa fu vedere dal finestrino i volti dei miei genitori diventare piccoli, poi sagome, poi puntini e  poi sparire.


Marta parte per Torino


28 agosto 2025

Parte Prima: Andata. Capitolo 1 Detergente: MARTA - segue2

 



Dopo un paio di telefonate con Marco e Giulia, decidemmo che Giulia  mi avrebbe dato un passaggio con la sua vecchia Uno color canna di fucile.

Usata più per appartarsi col poveraccio di fidanzato di turno che per altro (grazie al suo sedile reclinabile ‘con una mano sola’ ci teneva a precisare).

Con addosso due fazzoletti scarsi di stoffa, uno sopra ed uno sotto l’ombelico, Giulia mi accolse con un bacione e un flusso ininterrotto di chiacchiere che stoppai subito.

«Fermati al benzinaio sulla via de La Martella per favore».

«Perché? Dobbiamo andare in pizzeria a Timmari, mica a Bari: non dobbiamo fare benzina».

«No, ma ho un problema di carrozzeria». 

«Ma chi ti capisce, Tetto’!»

Comunque, il benzinaio era di strada, le indicai il parcheggio deserto e buio dopo le pensiline e appena lei si fermò mi slacciai la cintura di sicurezza e iniziai a sbottonarmi la castissima camicetta.

Il mio piccolo streap tease la sorprese e mi resi conto che sarebbe stato meglio dirle che mi dovevo solo cambiare.

«Oggi è festa». Le dissi: «E mi vesto da festa».

«Che peccato, Tetto’, speravo che stessi facendo coming out e che mi avresti supplicato di leccarmela, sono dieci anni che so che ti piacerebbe».

«Sì, sì, ma non oggi, aspetta un altro po’. Beh, come sto?» Dissi gettando sul sedile di dietro il jeans e la camicetta.

«Finalmente te la sei messa la mia gonna: che è successo, Tetto’? Oggi la vuoi dar via per forza?»

«Mo’ sarei io la troia? Vedi che sei più nuda di me. E poi sei sessista!»

«Marta dice parolacce, Marta dice parolacce, Akela, Akelaaa, Marta dice parolacce!»

«Muoviti Zoccole’, ho fame».

La Uno partì sgommando mentre Giulia mi dava un ceffone sulla coscia sinistra: 

«Visto che queste non sono per me per chi sono? Per Marco o per Luca?»

«Luca no, non mi prendo i tuoi scarti».

«Oh, ma guarda, è diventata subito preziosa la mia troietta».

Decisi di dire la verità, o almeno tutta la verità che ero disposta a confessare e  Giulia poteva capire.

«Le cosce non sono per i maschi, sono per me».

I pochi secondi di silenzio mi fecero capire che, almeno in parte, mi ero spiegata.

Giulia è praticamente mia sorella e non potevo ammettere che tra noi calasse tristezza nemmeno per pochi secondi.

Ma era difficile fermare Giulia o almeno la sua linguaccia: «Ah, ma allora ho capito, è tutta una mossa romantica. Lei ama lui che ama lei ma non è capace a dichiararsi finchè non gli viene così duro che si dichiara il suo cazzo al posto suo.

Già vedo le pubblicazioni, tra cinque anni: il Dottor Marco Ferrulli e l'ingegneressa Marta Montemurro annunciano il loro matrimonio, astenersi rattusi. Da Via degli Oschi a Via Gramsci, auguri e figli maschi!»

Sorrisi chinando il capo.

Le mie gambe erano segnate dal Cammino e non sarebbero state da esibire così, con una abbronzatura irregolare, croste e graffi.

Beh, farle vedere a Marco era una buona idea. 

Ma non era seduzione, solo il primo pezzo di me che rompeva la crisalide.

Le luci della città si spensero alle nostre spalle e la stretta strada si incuneò nella campagna estiva.

Il profumo delle stoppie bruciate mi investì assieme all’aria tiepida che si riversava dai finestrini abbassati.

Il profumo della Basilicata  è arido, ma io non lo sapevo ancora: lo avrei imparato solo immersa in quello umido dei boschi piemontesi.

Un bolide attraversò il cielo.

«Cazzo, hai espresso il desiderio?»

Purtroppo sì.

La pizzeria era a Timmari, in aperta campagna, immersa in un oliveto e assediata da una gigantesca colonia felina.

Le zanzare erano  legione ma, ormai, ero abituata ai nugoli di insetti della route e non ci facevo più caso.

«Oh, ricordati che non hai i pantaloncini, tienile chiuse le gambe» mi istruì Giulia.

Arrivammo  più o meno contemporaneamente agli altri e vorrei poter dire di aver attirato l’attenzione generale ma non fu così.

Tutte le scolte erano in tiro e non c’era nemmeno un jeans in vista. Abbondavano hot pants e minigonne e anche la Capo Fuoco ostentava un abitino estivo a fiori.

Mi sarei fatta notare di più nella mia solita, castissima,  tenuta a base di jeans larghi e camicia col colletto chiuso fino all’ultimo bottone.

Qualcuno, però, mi notò.





A Marco gli venne un mezzo colpo quando mi sedetti al suo fianco e ammutolì arrossendo.

Dalla sua bocca uscì solo una specie di ‘Ciao’ smozzicato.

Trovai l’esperimento interessante.

Era il mio miglior amico e condivideva con Giulia la relazione umana più piena della mia vita.

All’epoca non ero capace di portare la minigonna e la mia seduta era  più generosa di quanto necessario, ma non provavo nessun imbarazzo, nessuna vergogna.

E nemmeno voglia di provocare.

Ero così: nasone, cosce, tette e culo.

E un cuore di misura sotto-standard.

Marco non osò nemmeno voltarsi, guardando dritto di fronte a sè, muto.

D’accordo: non mi aveva mai vista con abiti succinti addosso.

E nemmeno io sapevo davvero cosa dire.

Magari gli avrei potuto passare un bigliettino stile scuola elementare con su scritto ‘ti vuoi mettere con me sì/no’.

E, poi, che cosa speravo di ottenere? Che mi dicesse: ‘sei bella?’ Ma io sono brutta. Che mi dicesse: ‘ti voglio bene?’ Ma questo lo sapevo già. Che mi dicesse: ‘sono innamorato di te?’ Sarei scappata via a gambe levate.

Per fortuna, l’elefante Giulia arrivò sul più bello con Luca, evidentemente già istruito a non fare troppi commenti.

«Hai visto Marta quanto è figa? Che peccato che se ne parte eh? Ormai per te è troppo tardi».

Marco, con me, era timido a livello patologico ma non era  un moccolone.

«Mi aspetterà, come tutte. E statt tranqui’ verrà anche il tuo turno».

Mi indispettiva che fosse così naturale con lei e così muto con me.

Qualcosa si materializza nella pancia come una cattiva digestione.

Giulia rideva con Marco e io mi feci riempire da un attacco di gelosia rabbiosa  da farmi piantare le unghie delle mani nella carne delle cosce.

Non mi sono messa ‘sta gonna per Marco. (Davvero?)

Non sono seduta qui per Marco. (Certo)

Di lì ad una settimana la distanza fisica tra me e Marco  sarebbe stata equivalente a quella sentimentale.

Di lì ad una settimana io stessa sarei stata ad una distanza abissale dalla me seduta a quel tavolo per una pizza tra scout.

Nel nostro Gruppo c’è tutt’ora questa tradizione scema di farsi una foto tutte assieme tornati dal Campo e mostrare le gambe graffiate, scorticate, abbronzate a metà.

Partecipai per la prima volta dalla pizza post campo del secondo anno di reparto quando mia madre mise il veto alla faccenda.

Ci mettemmo in fila in una caricatura di sfilata di moda in un continuo allegro chiacchiericcio.

Per una volta ero vestita normalmente: come le altre.

Lì, in fila, pensavo che: «Andare al Politecnico è quello che voglio. Andare a Torino è quello che voglio. So che lasciare il Clan sarà una mazzata. So che lasciare Giulia, Luca e Marco sarà una ferita».

Sapevo che la non relazione con Marco non si sarebbe risolta quella sera.

Ma non capivo perché mi sentissi così angosciata mentre mi mettevo in posa.

Anche se non era tardi eravamo tutti assonnati.

Dopotutto, 12 ore prima eravamo ancora in treno reduci da una route mica da ridere.

Non c’era molta voglia di trattenersi a chiacchierare.

Ma dovevo salutare, quindi iniziai a saltare da un capannello all’altro per dare appuntamento a Natale.

Mi pesava: erano i miei fratelli e le mie sorelle Scout con cui avevo condiviso gli ultimi 11 dei miei 19 anni di vita.

Salutai Roberta e Anna, che avevo accolto nel branco, bimbette spaurite, quando ero Capo Sestiglia dei Pezzati.

C’era Imma, arrivata da Garaguso ed entrata nel Reparto quando ero Vice delle Aquile.

Salutai i Capi e quando fu il turno di Raffaele mi disse: «Gesù Marta, sto entrando nella massima età di rischio infarto ma è proprio vero che il Signore ha fatto grandi cose per noi poveri peccatori».

Beh, almeno qualcuno, due complimenti era in grado di farmeli.

«La mia mail ce l’hai, Marta, non ti faccio raccomandazioni inutili ma scrivimi. E Buona Strada».






つづく

26 agosto 2025

Parte Prima: Andata. Capitolo 1 Detergente: MARTA - segue

 



L’estate, implacabile, mi soffocava.

Forse, anche per questo avevo scelto Torino: nebbia e pioggia, il posto giusto per me.

Sin dalla pubertà la mia pelle è stata un segreto gelosamente custodito da mia madre.

E alla calura estiva ha sempre aggiunto l’aggravio di stoffa mentre Giulia era libera di girare fresca e mezza nuda.

«Mi fai passare per la troia del duo» mi diceva. 

«E non sei contenta? Sanno che da me non avranno niente e sono tutti ai tuoi piedi». Le rispondevo.

Temo il sole come una vampira.

Dovevo decidere come vestirmi per la pizza di Clan.

Ovviamente, dovevo per forza uscire di casa vestita da suora, non era possibile fare altrimenti.

La divisa da brava ragazza era un obbligo e sapevo bene che sarei stata ispezionata fino al numero di bottoni della camicetta. 

Ma io, in jeans in pizzeria non avevo nessuna intenzione di andarci.

Da molto tempo nascondevo tra le cose scout una minigonna jeans  tipo velina di Striscia la Notizia.

Me l’aveva regalata Giulia per i miei 18 anni.

L’avevo indossata solo in casa per fare le mie fotine licenziose...

Ma per quella sera,  l’ultima che avremmo passato insieme chissà per quanto tempo, avevo deciso che le cose sarebbero andate diversamente.

E poi cosa volete che sia esibire un po’ di carne rispetto a quello che avrei fatto la settimana successiva?

Cercai il jeans più largo in mio possesso e feci due prove.

Ok, ad essere proprio pignoli si vedeva qualche rigonfiamento di troppo, ma avrei avuto la camicetta fuori dai pantaloni così mia madre sarebbe anche stata contenta che non mi si vedesse il culo. 

L’outfit era deciso: sandali, super mini, canotta,

Però, dove mi cambio, ossia: dove mi sfilo i jeans? E dove li metto jeans e camicia, poi? Ci penserò dopo. Ora è meglio farsi vedere dal Sergente prima che sospenda la libera uscita’.


つづく

24 agosto 2025

Parte Prima: Andata. Capitolo 1 Detergente: MARTA

 



«Tutto bene bambina?»

Era il saluto di prammatica di papà.

Aspettò educatamente che il Clan finisse l’ultimo cerchio e le foto di rito sul marciapiede della stazione FAL di Matera. Poi, incurante delle mie proteste, prese il mio zaino ma io glie lo tolsi di dosso e lo abbracciai stretto, serenamente ricambiata sempre nello stesso modo da quasi vent’anni.

Un bacio sulla fronte conclude la cerimonia.

Per uno Scout di ritorno da un campo, la prima doccia a casa rappresenta un rituale mistico dai concreti risvolti fisiologici.

Con la porta del bagno chiusa alle spalle mi lanciai in uno spogliarello supersonico subito dopo aver aperto l’acqua calda.

Via gli scarponi, via i calzettoni blu, la camicia, la maglietta, reggiseno e mutandine, via l’elastico dai capelli e di corsa sotto l’acqua ancora fredda.

Finalmente!

E dopo i vestiti via il sudore incrostato di polvere, via l’unto dai capelli, via lo sporco accumulato dentro tutte le pieghe orifizi ed affini, sollievo alle croste, alle punture di insetto, alla pelle segnata ed arrossata dalle cinghie dello zaino, ai piedi vessati da una settimana di scarponi.

Via quel residuo di un piccolo miracolo di serenità e gioia pagato anche da  quei segni sulla pelle.

Restai sotto la doccia almeno mezz’ora, finchè la pelle delle dita non si raggrinzì.

Scrutai nello specchio appannato per vedere se c’ero ancora.

Già, sono sempre io, la vergine di ferro.

Una ragazza alta, con un corpo flessuoso, snello e con una perfetta forma a clessidra che ondeggia su gambe lunghe dalle cosce ben tornite da dieci anni di nuoto ma con tratti del viso marcatamente sproporzionati.

La classica bella scopata con il cuscino in faccia.

Me lo dico da sola dopo averlo sentito fin dalle scuole medie.

Dovrei esserci abituata tanto da non soffrirne più ma non è così.

Lo guardo tutte le volte il mio nasone, tutte le volte che sono davanti allo specchio.

Lo guardo coi miei occhi piccoli e un po’ porcini.

Li conto ad uno ad uno i miei incisivi da cavalla perché potrebbero essere dodici tanto son larghi.

Anche in quel momento in cui avrei avuto altro da controllare.

Le spalle erano segnate dalle cinghie dello zaino.

Avevo una puntura di zanzara proprio tra i seni: un gigantesco brufolo, fastidioso ad ogni respiro.

Esibivo una abbronzatura da muratore: bianca fino a metà polpaccio, quasi nera fino a mezza coscia, bianca fino alle spalle e scura sugli avambracci.

Le gambe erano coperte di graffi, entrambe le ginocchia sbucciate e le zanzare avevano banchettato a sciami sulle mie cosce.

Pensai a cosa mettermi per la pizza di Clan.

Un Burqa?

Mia madre avrebbe apprezzato.

‘Finirò per morire di caldo in una camicetta e jeans, già me lo sento’.

Ma avevo  una questione più urgente.

Dovevo depilarmi per bene tra le gambe.

E’ più di una settimana che non lo faccio e i risultati si vedono. E devo anche fare in fretta, avevo promesso una foto entro pranzo di oggi’.


«Marta, manco sei arrivata e già ti appiccichi al computer?»

Mia madre non gradì il mio scapicollarmi davanti al mio vecchio portatile dopo la doccia.

«Almeno ti potresti degnare di mettere quegli stracci schifosi in lavatrice invece di lasciarli lì per terra».

La ignorai, tattica pericolosa ma di gran lunga meno pericolosa che risponderle.

Del resto, avevo bisogno solo di pochi minuti.

Il mio Notebook dell’epoca era vecchiotto, un Compaq Armada M700,  ma ero riuscita ad aggiornarlo con tanta RAM di seconda e terza mano.

Debian 2, quindi, partì in fretta.

Meno di due minuti dopo ero collegata alla mia identità segreta.

Scaricai le foto dal cellulare, le cancellai dal telefono (lo so, non è una modalità sicura ma andavo maledettamente fretta) e me le ritrovai sul desktop.

Con la solita scossa elettrica che mi parte dal basso ventre, passa dallo stomaco ai capezzoli diretta poi al cervello, feci login al mio account katamail segreto.

«Cavolo, non mi ha scritto… Durante tutta la settimana non mi ha scritto nemmeno una riga».

Cercai la sua ultima mail:

«Voglio un po’ di tue foto nuda appena torni a casa, entro mezzogiorno del 30 agosto. Mi raccomando, niente ritardi, niente peli»

Sono le 11:57.

Clicca su ‘rispondi’ e poi allega le foto.

L’upload della connessione 56k faceva cagare ma erano solo 4 immagini scattate dal mio vecchissimo cellulare con fotocamera da zero virgola megapixel.

Invio.

Ore 11.58

Le urla di mia madre superarono in volume il livello di guardia.

Spensi il notebook e mi precipitai fuori dalla stanza.


«Sempre tutto in disordine, te ne freghi della tua famiglia e non fai altro che perdere tempo, è un disastro continuo»

La destinataria di questi apprezzamenti ero io, Marta Montemurro, M & Menns per i compagni di classe.

Alta 1,83, quinta di reggiseno, naso formato proboscide, appena maturata con cento e lode al  Liceo Scientifico Statale «Dante Alighieri», Lupetta, Guida, Scolta nel locale Gruppo Scout Agesci Matera 5, vergine (e no, non il segno zodiacale: sono dei pesci), media del 9 da sempre, mai una nota a scuola, mai un ritardo, mai un filone, mai tornata a casa da una festa dopo mezzanotte e attualmente iscritta al test di ingresso per l’accesso al corso di Laurea in Ingegneria Informatica del Politecnico di Torino.

La nostra Marta, per esempio, pulisce il bagno tutte le domeniche dalla terza elementare (un impegno iniziato per una qualche faccenda di Lupetta), passa regolarmente la domenica pomeriggio a studiare (dato che il sabato è sempre stato per gli scout) e non ha mai avuto un fidanzatino.

Non beve, non fuma e si è anche pagata la patente, il cellulare e l’upgrade del portatile facendo la promoter del latte al supermercato. Cosa che ho potuto fare solo grazie all’intercessione ferma di mio padre, perché, se no, ‘vestita da zoccola con le cosce di fuori’  nella quasi casta uniforme aziendale, non sarei potuta andare nemmeno lì.

Certo, non sono tutto ‘sto concentrato di perfezione.

Passo troppo tempo a giocare ai videogames. Pirata, ovviamente.

Sono affetta da una scomoda parafilia che maschero senza problemi ma che mi sbrana dentro.

Chissà cosa ne direbbe la mamma che mi da il tormento per una ciocca di capelli fuori posto, la camicia dell’uniforme lasciata per cinque minuti di troppo sul pavimento o perché «non ci si siede sul letto» manco fossimo nella caserma del Sergente Hartman, cosa ne penserebbe delle mie fantasie sessuali o delle fotografie che spero bene stiano piacendo molto a chi dico io.

Nella mia tenuta di brava ragazza di famiglia, capelli annodati con un semplice elastico, maglietta bianca e pantaloncini ricavati da un vecchio jeans (ma con cui non posso andare nemmeno a buttare l’immondizia perché sono troppo corti) me ne stavo ad ascoltare le lamentele di mia madre dopo otto giorni passati fuori casa.

Per distrarmi dalla sua voce e dalla mia che mi urlava nel cervello di andare a cliccare compulsivamente sul tasto ‘controlla la posta’ per vedere se e cosa mi era stato risposto, mi concentrai sul cibo.

Mia madre aveva cucinato un pranzo un po’ speciale: calzone, spaghetti con le vongole, pesce fritto. Dopotutto era domenica, mancavo da casa da 8 giorni e la settimana successiva sarei partita per Torino.

Era un vero peccato che le sue parole mi chiudessero così lo stomaco.

Feci appello a tutti i buoni propositi maturati in route e, forse, fu proprio la carica di energia positiva che accumulata in quella settimana zaino in spalla sui monti abruzzesi a darmi la forza di non reagire come al solito e a tentare di smussare la lite che mia madre cercava, ormai palesemente, da quando avevo messo piede in casa.

Raffaele, ne sono sicuro, sarebbe già arrivato in un attimo al nocciolo della questione, cosa che io ho fatto solo anni dopo: mia madre era semplicemente terrorizzata per la mia partenza e reagiva così: torturandomi.

Ancora una settimana, ancora una settimana, ancora una settimana!

Per evitare di complicare la situazione, anche se avrei voluto scappare a dormire e scappare a controllare la posta in egual misura, mi misi a sparecchiare.

Mia madre è tutt’ora contraria alla lavastoviglie (che hanno) e se ne sbatte del suo minore impatto ambientale rispetto a dover lavare con detersivo e tanta tanta acqua la montagna di padelle usata per cucinare il calzone, la pasta e la frittura di pesce.

Ma mi lamento, tutt’ora,  a vuoto.





Eravamo in tre in cucina e, dopo tutto, in meno di mezz’ora la stanza era pronta per una visita reale.

Mia madre mi diede, a malincuore, il permesso di andare ‘a perdere tempo’.

Di come sia andata la route, di cosa abbia provato in questi ultimi giorni non le importava nulla.

Ovviamente, appena in camera, mi fiondai sul computer: c’era risposta.





SEGUE