Una città ferita si sveglia come le altre.
Col caffè, il pane, il torpore che ti risucchia sotto le coperte.
I bambini da svegliare, vestire, mandare a scuola.
Una routine solida, consolidata.
Sciacquare la macchinetta del caffè concentrandosi sull'acqua fredda che ti scorre sulle mani.
L'acqua fredda che ti scorre sulle mani non ti fa pensare a tuo marito che va a lavorare in Puglia, sempre più lontano, con un orario sempre più lungo, non ti fa pensare a tuo figlio corsista a vita, non ti fa pensare a tua
madre a cui non pagano lo stipendio da quattro mesi, nè all'aria che sa di colla quando esci in strada tra muri scrostati e merde di cane.
Lì dove c'era un negozio di abbigliamento poi hanno messo un comprooro.
E poi hanno chiuso anche quello.
E la città, anemica dopo la finta ripresa demografica del Natale, si illude di essere sana mentre è un guscio vuoto, un batrace gonfio dalla pelle di cemento.
Poi, lontano, ci si sveglia ignoranti e increduli e la bellezza di un luogo in cui non ci sono sei gradi di separazione ma, tutt'al più due o tre, diventa angoscia.
Però, dove non vale la solidità della convivenza civile, resiste la solidarietà dei cuori.
E si passa tutti, tutti, una giornata di pena e speranza.
Poi torna la disillusione.
E si conta un'altra cicatrice cava assieme alle altre quattrocento e passa, piene, sparse da Serra Rifusa ad Agna le Piane.
Una città ferita la puoi sentire anche da lontano.
Il giorno dopo, col caffè e non basta zucchero di canna a secchiate per toglierti l'amaro, tu, che hai passeggiato in una città senza scale, senza ferite, senza figli lontani.
Tu, ti rendi conto che c'eri.Anche se sei fuggito.
Anche se ti sei salvato.
Anche se ti sei voltato dall'altra parte, perchè da quell'altra la tua faccia faceva spavento.
Dopotutto, serrare la moka ogni sera è ginnastica sufficiente per tener viva la speranza.
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