Anche se di guerra era pur sempre Natale.
Il pranzo di Santo Stefano era stato leggero facendo di necessità virtù.
Si era alzato presto e aveva lasciato Chiara a dormire nella stanzetta sopra casa di suo padre, sul Piano.
Era sceso nei Sassi ancora addormentati, facendo attenzione a non cadere nei canali di scolo e a qualche pitale svuotato dalle finestre.
In pochi minuti fu a Porta Pistola da cui si addentrò nel canyon della Gravina.
Si stava dirigendo all'eremo in cima alla collina al centro del canyon.
Scese guardingo per il sentiero reso sdrucciodevole dall'umidità, fino a raggiungere il torrente gonfio per le piogge invernali.
I sassi che sporgevano dal pelo dell'acqua erano lucidi per l'umido ed erano scivolosi sia alla vista che al tatto.
Ma lui li conosceva a memoria.
Memoria.
Prima dello sfondamento finale, se li era ricordati, quei sassi, quando si era trovato dietro un pezzo anticarro faccia a faccia con un bestione d'acciaio.
Uno due, destro sinistro destro ed ecco l'altra sponda della Gravina.
Nemmeno questa volta si era bagnato gli scarponi.
Le scarpe, gemelle di quelle che lo avevano sostenuto praticamente dall'Asia all'Italia.
Dono di suo Padre.
Un'altra cosa che doveva ancora fare: ringraziare suo padre per quelle scarpe che gli avevano salvato la vita.
Un paio di scarpe, una vita.
Iniziò a risalire la ripida collina sassosa che si contrapponeva alla parete in cui era scavata la sua città.
Non aveva bisogno di arrampicarsi con le mani, era ancora abbastanza allenato dopo tutta la strada fatta a piedi alla fine dell'Estate.
In quei cento metri di ascesa tra pietre ghiacciate pensò a Chiara che dormiva nel letto al piano di sopra di casa sua.
A quel matrimonio fatto in fretta, poverissimo, punto di arrivo di altri pensieri, quelli che li avevano sorretto nell'infernale inverno precedente.
Troppe ne aveva viste, troppe ne aveva fatte.
I ragazzini del suo plotone arsi vivi, squartati dalle granate sul tappeto di gelo, la follia dei superiori e le atrocità degli alleati.
Quelle troie dei Savoia!
Che li avevano abbandonati ai nazisti, ai fascisti e a far la guerra con le cerbottane contro i carri armati!
Quei figli di puttana dei tedeschi e il lago di sangue che si lasciavano dietro.
Quei bastardi vigliacchi dei fascisti arditi nella fuga e geni della strage della propria gente.
Arrivò in cima mentre un timido sole illuminava la città scavata nella roccia.
"In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele Terzo In grazia di Dio e per volontà della Nazione
Re d'Italia... Si presenterà al distretto militare... Assumerà il comando della Compagnia..."
Avevano lo stomaco di mandargli la letterina di coscrizione come se niente fosse stato.
Come se non fosse il Re il primo disertore che aveva abbandonato lui e milioni di altri alla mercè dei tedeschi.
Odiava il Re e i suoi generali.
Odiava i fascisti prima che i tedeschi.
E grido'.
Un grido lungo, umano, che diventò eco tra le querce del fondovalle.
Poteva ignorare la lettera e darsi malato, non era fesso, si sa come vanno le cose, basta pagare.
Ma era quel pensiero ad averlo fatto gridare.
Il pensiero di aver patito freddo, fame, orrore, per colpa di fascisti, tedeschi e ignavi savoiardi e doversi accontentare di aver salvato la pelle.
Era quella rabbia a farlo urlare.
Cosa ne sarebbe stato di lui se fosse rimasto a casa?
Entro un paio di anni gli americani sarebbero stati a Berlino, era chiaro.
E se lui se ne fosse stato a casa poi cosa ne sarebbe stato di quei porci che li avevano ridotto così?
Sarebbero tornati dalla prigionia allegri e felici e avrebbero ripreso da dove si erano interrotti e lui sarebbe sempre rimasto come quello che scappava.
Scappato dalla Russia, scappato dai tedeschi, scappato dai fascisti, genuflesso agli americani e pure a quei bastardi di inglesi.
E no, perdio, lui e i suoi non erano mai scappati da nessuno.
In Russia erano usciti dalla sacca al grido "Tutti i vivi all'assalto".
Lontano, i campanacci delle vacche.
Scese nell'eremo, dove gli affreschi millenari lo guardavano severi.
Sarebbe andato.
Sarebbe andato di nuovo con l'Esercito del Re.
Sarebbe andato, avrebbe preso a calci i tedeschi, i loro lacchè fascisti, poi sarebbe toccato ai Savoia ai generali e a tutti i mammasantissima che li avevano portati a vent'anni di macello.
Sarebbe andato a piedi, come al solito, come al solito con un fucile vecchio, una divisa inglese logora e forse un paio di scarpe americane, ma sarebbe andato.
Come era andato a piedi in Albania, Grecia, Iugoslavia, Africa e Russia e dalla Russia all'Italia.
Sarebbe andato a piedi da Matera a Milano e poi sarebbe tornato a Brindisi o a Roma o dovunque Savoia e fascisti si fossero andati a nascondere.
Iniziassero a scappare, a scappare, loro!
Si era alzato presto e aveva lasciato Chiara a dormire nella stanzetta sopra casa di suo padre, sul Piano.
Era sceso nei Sassi ancora addormentati, facendo attenzione a non cadere nei canali di scolo e a qualche pitale svuotato dalle finestre.
In pochi minuti fu a Porta Pistola da cui si addentrò nel canyon della Gravina.
Si stava dirigendo all'eremo in cima alla collina al centro del canyon.
Scese guardingo per il sentiero reso sdrucciodevole dall'umidità, fino a raggiungere il torrente gonfio per le piogge invernali.
I sassi che sporgevano dal pelo dell'acqua erano lucidi per l'umido ed erano scivolosi sia alla vista che al tatto.
Ma lui li conosceva a memoria.
Memoria.
Prima dello sfondamento finale, se li era ricordati, quei sassi, quando si era trovato dietro un pezzo anticarro faccia a faccia con un bestione d'acciaio.
Uno due, destro sinistro destro ed ecco l'altra sponda della Gravina.
Nemmeno questa volta si era bagnato gli scarponi.
Le scarpe, gemelle di quelle che lo avevano sostenuto praticamente dall'Asia all'Italia.
Dono di suo Padre.
Un'altra cosa che doveva ancora fare: ringraziare suo padre per quelle scarpe che gli avevano salvato la vita.
Un paio di scarpe, una vita.
Iniziò a risalire la ripida collina sassosa che si contrapponeva alla parete in cui era scavata la sua città.
Non aveva bisogno di arrampicarsi con le mani, era ancora abbastanza allenato dopo tutta la strada fatta a piedi alla fine dell'Estate.
In quei cento metri di ascesa tra pietre ghiacciate pensò a Chiara che dormiva nel letto al piano di sopra di casa sua.
A quel matrimonio fatto in fretta, poverissimo, punto di arrivo di altri pensieri, quelli che li avevano sorretto nell'infernale inverno precedente.
Troppe ne aveva viste, troppe ne aveva fatte.
I ragazzini del suo plotone arsi vivi, squartati dalle granate sul tappeto di gelo, la follia dei superiori e le atrocità degli alleati.
Quelle troie dei Savoia!
Che li avevano abbandonati ai nazisti, ai fascisti e a far la guerra con le cerbottane contro i carri armati!
Quei figli di puttana dei tedeschi e il lago di sangue che si lasciavano dietro.
Quei bastardi vigliacchi dei fascisti arditi nella fuga e geni della strage della propria gente.
Arrivò in cima mentre un timido sole illuminava la città scavata nella roccia.
"In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele Terzo In grazia di Dio e per volontà della Nazione
Re d'Italia... Si presenterà al distretto militare... Assumerà il comando della Compagnia..."
Avevano lo stomaco di mandargli la letterina di coscrizione come se niente fosse stato.
Come se non fosse il Re il primo disertore che aveva abbandonato lui e milioni di altri alla mercè dei tedeschi.
Odiava il Re e i suoi generali.
Odiava i fascisti prima che i tedeschi.
E grido'.
Un grido lungo, umano, che diventò eco tra le querce del fondovalle.
Poteva ignorare la lettera e darsi malato, non era fesso, si sa come vanno le cose, basta pagare.
Ma era quel pensiero ad averlo fatto gridare.
Il pensiero di aver patito freddo, fame, orrore, per colpa di fascisti, tedeschi e ignavi savoiardi e doversi accontentare di aver salvato la pelle.
Era quella rabbia a farlo urlare.
Cosa ne sarebbe stato di lui se fosse rimasto a casa?
Entro un paio di anni gli americani sarebbero stati a Berlino, era chiaro.
E se lui se ne fosse stato a casa poi cosa ne sarebbe stato di quei porci che li avevano ridotto così?
Sarebbero tornati dalla prigionia allegri e felici e avrebbero ripreso da dove si erano interrotti e lui sarebbe sempre rimasto come quello che scappava.
Scappato dalla Russia, scappato dai tedeschi, scappato dai fascisti, genuflesso agli americani e pure a quei bastardi di inglesi.
E no, perdio, lui e i suoi non erano mai scappati da nessuno.
In Russia erano usciti dalla sacca al grido "Tutti i vivi all'assalto".
Lontano, i campanacci delle vacche.
Scese nell'eremo, dove gli affreschi millenari lo guardavano severi.
Sarebbe andato.
Sarebbe andato di nuovo con l'Esercito del Re.
Sarebbe andato, avrebbe preso a calci i tedeschi, i loro lacchè fascisti, poi sarebbe toccato ai Savoia ai generali e a tutti i mammasantissima che li avevano portati a vent'anni di macello.
Sarebbe andato a piedi, come al solito, come al solito con un fucile vecchio, una divisa inglese logora e forse un paio di scarpe americane, ma sarebbe andato.
Come era andato a piedi in Albania, Grecia, Iugoslavia, Africa e Russia e dalla Russia all'Italia.
Sarebbe andato a piedi da Matera a Milano e poi sarebbe tornato a Brindisi o a Roma o dovunque Savoia e fascisti si fossero andati a nascondere.
Iniziassero a scappare, a scappare, loro!
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