Sono passati 10 anni dal tragico terremoto dell'Aquila.
Ci sono stati altri terremoti, dopo, ma ho indelebile nel cuore questa catastrofe perchè mi ha coinvolto in prima persona nei soccorsi.
I terremoti che sono venuti dopo li ho capiti ma non li ho vissuti.
Ho poche cose da dire, ne avrei molte da ricordare, ma una sola da testimoniare: nella notte delle lacrime di molti e delle risate di pochi alcuni scelsero di lasciare case, lavoro, fidanzate e mogli per andare ad aiutare degli sconosciuti.
Gratis.
Io ora non saprei più spiegare perchè siamo partiti.
Non lo so più, dieci anni dopo.
Nei miei post di 10 anni fa ci sono delle spiegazioni, valide più allora che oggi.
Perchè ho rinunciato a trovare conferme.
Me lo sento nelle ossa ma non ho più parole per descriverlo.
In una Italia incattivita in cui i terremotati sono oggetto di fake news finalizzate all'odio, per me la parola "terremotato" non è quell'uomo a cui il soccorso e l'aiuto dello Stato sono sottratti per essere trasferiti a stranieri immeritevoli su istigazione di una minoranza di radical chic.
Che è il significato corrente.
Per me è ancora lo spezzarsi di una vita anche quando è salva.
Lo spezzarsi di una comunità, di un progetto, anche di una banalità.
Chi arriva ad aiutarti non lo sa.
Dieci anni dopo spero che le vite di soccorritori e terremotati si siano riannodate.
Spero che, pensando a quei giorni tragici e dolenti, tutti quelli che sono passati tra quei campi abbiano, nel tempo, ritrovato il senso di una esperienza terribile.
Ho fatto un giro su google maps e i luoghi sono irriconoscibili.
Eccetto il campo dove era montata la tendopoli.
Forse perchè non sarò mai capaci di guardare quelle zolle con altri occhi.
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