3 ottobre 2020

Dalla MiG Valley alla Storia della Caccia Italiana - Prima Parte



Nell'ultimo mese mi sono appassionato a due saggi tecnici di Storia dell'Aviazione.

Un testo in inglese sulla Guerra Aerea in Corea e un testo italiano sulla Storia dei Caccia Italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.

I due testi sono collegati dall'argomento ma anche da un filo sottile di cui parlerò dopo.

Partiamo da MiG Alley, una Storia della Guerra di Corea circoscritta alle azioni di combattimento aereo avvenute al confine tra Corea del Nord e Cina: tra i piloti USA da un lato ed i piloti Sovietici e Cinesi dall'altro.

Il libro ha potuto accedere a fonti declassificate di origine russa e cinese ridimensionando di gran lunga la pretesa dell'USAF di aver sbaragliato i MiG sovietici con un rateo Dieci a Uno (per ogni F-86 perso 10 MiG-15 avevano fatto la stessa fine).

Alla fine, il rateo di perdite è stato più prossimo a 1,3:1 (sempre a favore dell'USAF).

Ho apprezzato molto il libro ma non concordo con le sue conclusioni in quanto le trovo incomplete.

La tesi degli autori è che anche nei cieli l'USAF abbia pareggiato e non vinto, un po' come l'US Army che non è riuscito a cacciar via L'Armata Popolare di Liberazione Cinese dalla Corea del Nord.

Per prima cosa il rateo di abbattimenti non è eccezionale, inoltre l'esercito Cinese al fronte non ha mai vissuto una carenza di rifornimenti a seguito della massiccia campagna di interdizione aerea sulle infrastrutture della Corea del Nord.

Messa così c'è poco da aggiungere.

Io preferirei scavare un po' di più sul contesto.

Beh, ho usato il termine 'preferirei' perchè di fatto non sono riuscito (ancora) ad individuare tutte le fonti necessarie al mio ragionamento, mi riservo di aggiungerle qui man mano che le trovo, per ora basiamoci pure su wikipedia.

Non la voglio/posso far lunga, quindi iniziamo col dire che nel pieno della guerra in Corea si fronteggiavano 66 divisioni Cinesi e 18 circa USA/Sudcoreane. Nei Cieli si fronteggiavano circa 150 F-86 contro alcune centinaia (l'unica fonte che ho recuperato fino ad ora parla di circa 900 MiG 15).

Guardate un attimo la cartina:




Gli scontri avvenivano nella "MiG Alley", cioè a due passi dalle basi dei MiG e parecchio lontano da quelle degli F-86 americani.

Questo dato di fatto era un grave svantaggio per i caccia USAF ed un vantaggio notevole per i MiG.

Vi ricordo che quando gli inglesi fermarono i nazisti nella Battaglia d'Inghilterra (in cui i caccia tedeschi combattevano lontano dalla proprie basi e quelli inglesi  praticamente 'sopra' le proprie basi) il rateo di perdite fu di circa 1,13:1 in favore degli inglesi.

Con un rateo di perdite di 1,3:1 in favore dei tedeschi probabilmente oggi in Europa ci si saluterebbe romanamente (beh, in Italia lo si fa di nuovo senza destare particolari allarmi, vai a vedere che alla fine della fiera Stalingrado risulterà una bella vittoria nazifascista).

Inoltre, i tedeschi non erano nel grave svantaggio numerico in cui combattevano gli americani.

Direi che quando attacchi a 500 km dalla tua base in territorio nemico e in inferiorità numerica di almeno 3:1 il reateo di vittorie di 1,3:1 in tuo favore non è certamente un pareggio.

E considerando l'assenza delle aviazioni rosse sul campo di battaglia  ci si può allargare a definirla una vittoria piuttosto netta.

La cosa ha una valenza pratica anche considerando la campagna terrestre.

E' verissimo che, anche secondo le stesse fonti USAF, la campagna di interdizione nel territorio della Corea del Nord "non interdì" (Vice Admiral J. J. “Jocko” Clark, commander of the US Seventh Fleet in the final year of war: “The interdiction campaign didn’t interdict.”) e che le 66 divisioni cinesi al fronte ebbero sempre a sufficienza cibo, munizioni e armi.

Infatti, Nord Coreani e Cinesi erano abilissimi nel riparare ponti e ferrovie e nel trasportare _a braccia_ i rifornimenti dalle ferrovie al fronte.

Ma cosa sarebbe successo se il ponte buttato giù da una squadriglia di F-84 (6 piloti) e riparato da un reggimento di genieri (1000) uomini anche più volte al giorno fosse rimasto su?

Io credo che invece di 18 divisioni, agli USA, per mantenere lo status quo, ne sarebbero occorse molte di più.

Probabilmente, troppe di più.

Di fatto, quindi, la campagna di interdizione non interdì, ma tenne il fronte.

E lo chiuse quando, il 15 luglio del 1953, alla vigilia (letteralmente) dell'offensiva comunista che avrebbe dovuto spezzare il fronte alleato, un singolo gruppo di caccia bombardieri (il 18°) con quella che si può definire solo una gran botta di culo, individuò e distrusse il gruppo di treni carico di munizioni indispensabile all'offensiva cinese che, infatti, non ci fu.

Pochi giorni dopo si firmò l'armistizio tutt'ora in vigore.

La Guerra di Corea, quindi, non è affatto finita e se c'è un posto in cui la follia della Guerra può tornare a manifestarsi è proprio lì.

Vi avevo promesso un filo di raccordo tra la Guerra di Corea e la nostra Guerra Aerea di 10 anni prima.

Inizierei da qua:

Dovete sapere che nel 1945-1950 gli inglesi erano al top per quanto riguarda la costruzione di jet per aerei da caccia.

Insomma, erano proprio bravi e anche oggi, per quanto non a livello degli USA se la cavano. 

Ma allora erano l'avanguardia.

Così, mentre in Europa calava la Cortina di Ferro, gli inglesi avevano progettato il più potente motore per Caccia dell'epoca, il Rolls Royce Nene.

Il non plus ultra.

Gli americani avevano la bomba atomica, ma non avevano un motore per jet così potente ed affidabile.

I Sovietici erano ancora più indietro.

Poi entra in scena uno di quei fatti più frequenti in un film di Peter Sellers che nella realtà.

I Sovietici chiesero agli inglesi di comprare il motore Nene per 'scopi scientifici'.

E il ministro per il Commercio Laburista inglese Sir Staffor Richard Cripps, incredibilmente, acconsentì.

Un po' come se l'Iran chiedesse ad Israele di vendergli il suo sistema antimissili Iron Dome e gli Israeliani Acconsentissero.

Un po' come se la Corea del Nord chiedesse a Trump in dono un centinaio di F-35 e fosse accontentata.

Un po' come se Civati chiedesse a Salvini di fare pubbliche dichiarazioni contro omofobia, saluti romani, fascismo, novax, negazionisti, ladri di 49 milioni, xenofobia (eccetera) e Salvini lo facesse.

Una faccenda che ha dell'incredibile.

Invano la Rolls Royce tentò di opporsi: fissò un prezzo esorbitante per ogni singolo motore ( i russi risposero che "la scienza non aveva prezzo"), cercò di accampare scuse e difficoltà burocratiche ma purtroppo non aveva sotto mano un direttore dei lavori di un'opera pubblica italiana e alla fine dovette cedere al volere del Ministro.

Quindi, qualche mese dopo aver ricevuto i primi esemplari del motore Nene, dopo aver promesso (giurin giuretto, croce sul cuore che possa morire) di usare il nene solo per socpi pacifici e scientifici, venne al mondo il MiG 15.

Che quando arrivò in Corea le suonò di santa ragione ai caccia americani (F-51 ed F-80) allora presenti sul teatro, cosa che spinse l'USAF a dispiegare in gran detta i pochi F-86 disponibili.

E il resto è storia, storia fatta da un aereo che non sarebbe mai esistito senza la perniciosa prodigalità di Sir Stafford, che fino a 5 anni prima era ministro della produzione aerea inglese durante la Seconda Guerra Mondiale e che proprio per questo ruolo avrebbe avuto tutte le carte in regola per valutare le conseguenze della sua letale ingenuità.

O criminale negligenza.

Appuntamento alla seconda parte.





Nota Bibliocineamtografica:

Sulla Guerra di Corea in Italiano ci sono pochi libri: il Classico "La Guerra di Corea" di Max Hastings e "Per la Gloria" di James Salter, da cui è stato tratto il film 'I Cacciatori' con Robert Mitchum. Si trova anche MASH di Hooker e poco altro.

A livello cinematografico va un po' meglio: 38° parallelo, Brigata di Fuoco, Brother of War, Essi Vivranno, il Fronte del Silenzio, Inno di Battaglia, I Ponti di Toko-Ri (forse il migliore), Sayonara, Taxi da Battaglia, I Dragoni dell'Aria.

Ogni tanto su Youtube si trovano anche spezzoni di film Nordcoreani. Se non fossero indice di una tragedia immane, ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate. 






20 settembre 2020

Di Fazzolettoni Scout portati male e Minigonne portate bene




Questo post nasce da due eventi distinti.

Il più recente è l'invito fatto da una VicePreside di un Istituto Superiore Romano alle studentesse di non indossare minigonne.

Ah, io dubito che le cose siano andate proprio come la stampa riporta ma ai fini del ragionamento cambia poco, del resto le invettive contro i pantaloncini da campo troppo corti di Guide e Scolte le ho sentite pure io in AGESCI in tempi recenti.

L'altro è il disappunto mostrato sui social da molti Capi Scout per il 'disordine' dei fazzolettoni di alcuni ragazzi nelle foto del Calendario AGESCI ufficiale del 2020.

Fatevi un giro qui, per esempio.

Premetto che di minigonne ne so poco, quindi mi concentrerò più che altro sui fazzolettoni  scout lasciando qui, per le minigonne, solo un mio 'fortunato' post su Facebook:

Premesso che una minigonna mi fa sempre ringraziare il Cielo (Grandi cose ha fatto il Signore per noi ecc..), ma per essere femminista, non violento e contro il patriarcato non ho capito però che cosa si deve fare: le donne in minigonna si possono guardare, non si possono guardare o... si *devono* guardare?

Il controllo del vestiario dei giovani, mi è sempre sembrata una causa persa sin dagli anni '60 del Secolo Scorso.

Ai tempi di B.P. il problema era avere dei vestiti, non scegliere tra i vestiti.

Quindi, tra una VicePreside che pensa ai centimetri di coscia delle studentesse e certi Capi Scout a cui non va giù che sui fazzolettoni Scout ci siano spille, ammennicoli e aggiunte fuori ordinanza ci vedo una familiare assonanza.

Ossia, Educatori che, anche se in buona fede, confondono lo strumento con il fine.

L'uniforme scout è uno strumento educativo, non una cartina di tornasole del successo o del fallimento educativo.

E' fatta per i ragazzi, i ragazzi non sono fatti per l'uniforme.

Si parla di 'stile', ossia quell'insieme di modo di presentarsi e di comportarsi che dovrebbero contraddistinguere lo Scout Ideale.

Ma come si quantifica lo Stile?

Come si determina il successo di una azione educativa?

Sono abbastanza sicuro che il numero di spillette e la forma degli avvolgimenti di un fazzolettone non sia una buona cartina di tornasole delle qualità umane di chi lo indossa.

Prima di tutto perchè il regolamento associativo non mette becco su spille e spillette e decorazioni del fazzolettone.

E la correlazione tra fazzolettone portato come una collana e il cattivo stile temo sia più negli occhi di chi guarda che nel cattivo comportamento di chi lo porta.

Un R/S con il fazzolettone lindo e portato  perfettamente che voti Salvini o la Meloni un partito xenomofobo antiscientifico non è un gran che come risultato dell'azione educativa di tanti bravi capi.

Detto questo il mio fazzolettone è sempre stato privo di orpelli (spero che la spilla della Grande Quercia  dopo la Tempesta non sia troppo 'fuori ordinanza') e i calzettoni sono sempre su (sempre è una esagerazione però: fin quando reggono gli elastici dei calzettoni associativi, poi, il crollo sulla caviglia è inevitabile).

L'importanza dell'uniforme e di come va indossata correttamente è dinamica, va inquadrata nell'evoluzione della Persona.

La Coccinella terrà l'uniforme perfetta, da Guida inizierà a scriverci sopra la sua crescita e la sua adolescenza, da Scolta magari la renderà il più femminile possibile e da Capo, probabilmente, la indosserà alla perfezione. 

Però il problema della minigonna rimane. 

Problema educativo, dato che tra adulti la faccenda non si pone.

Effettivamente, vestirsi come per il pride o il party di compleanno a Scuola non è il massimo della serietà ma non ho nessuna intenzione di mettermi a misurare centimetri di stoffa:

suggerisco di tornare al grembiule all'infanzia/primaria e all'uniforme scolastica alle medie/superiori.

Anche per ridurre un pochino le disuguaglianze tra chi può vestire Prada e chi no.

Insomma, un po' di scautismo anche a scuola risolverebbe tanti problemi.

Alla vicepreside e ai professori a cui casca l'occhio, of course.

Perchè, sia chiaro, l'alternativa al pensiero è accettare "ordini superiori".

12 settembre 2020

Scuola all'italiana: un altro centro commerciale


La mia esperienza con le istituzioni scolastiche italiane è stata mediocre.

Ho un buon ricordo della mia maestra che arrivò a parlare del nazismo e dei campi di sterminio, poi, che vi devo dire: non faccio troppi errori di ortografia e conosco i nomi di tutte i i Capoluoghi di Regione d'Italia.

Le cose sono rimaste accettabili alle scuole medie (oh, alla fine ero in una succursale della Giustino Fortunato all'estrema periferia di Matera, mica ad Oxford), pur con qualche segno di cedimento in alcune materie.

Oggi ringrazio la professoressa di Religione che ci dava un sacco di compiti: la scrittura mensile e manuale di un vero e proprio giornalino formato A4.

Il guaio è iniziato con le superiori, con una discesa lineare lungo tutti e 5 gli anni di Liceo.

Ho memoria di un ambiente arido, pervaso più dall'incompetenza tecnica che dall'ignoranza.

Ho esperienza dell'arbitrio irresponsabile (sarà  quella la causa primaria per la mia idiosincrasia verso l'irresponsabilità dei posti fissi?) e di una didattica che posso solo definire kafkiana.

I miei professori non erano asini, ma essere erudito non ti rende un buon docente.

Tra l'altro, per rendere l'esperienza scolastica dimenticabile, basta e a avanza che un paio di persone incompetenti siedano nel collegio dei docenti.

Il Latino e il Greco possono avere una validissima funzione educativa. Del resto, in un mondo in cui il volume del sapere è molto maggiore rispetto a quello dei nostri nonni, è impensabile pretendere che la Scuola istruisca in tutti i campi dello scibile: molto meglio che insegni ad imparare.

Infatti, 'si dice' che il Latino e il Greco abbiano una funzione educativa e formativa del pensiero e del ragionamento.

Non è l'impressione che ho avuto. La mia esperienza è stata più nel campo dell'autoreferenzialità e non in quello della dimostrazione  scientifica dell'utilità della conoscenza dell'aoristo cappatico.

La mia scuola era povera, povera di esperienze di laboratorio e pure l'accesso alla biblioteca dell'istituto era praticamente impossibile:

Al ginnasio, almeno, c'era quella di classe: un armadio colmo di tascabili consunti ma almeno disponibili.

Al liceo (l'ho già nominato Kafka?) le biblioteche di classe vennero soppresse, i libri confiscati dal preside e trasferiti nella biblioteca d'Istituto. 

A cui non si poteva accedere.

Ho scritto di questo episodio in diretta, mentre lo ricordavo.

L'università meriterebbe un capitolo a parte ma posso serenamente affermare che la discesa lineare è qualitativamente proseguita anche al Politecnico di Torino.

Insomma, alla domanda "a che serve la scuola?" Beh, la mia esperienza mi porta a rispondere: a fornire posti di lavoro, a vigilare sui minorenni, en passant, alfabetizzandoli a macchia di leopardo.

Tuttavia, le polemiche sulla scuola covid correlate sono veramente inaccettabili.

Le spiego né più né meno come effetto del fallimento del sistema scolastico.

Insomma, non difendo la Scuola Italiana, ma credo che sia arrivato il momento di far rinsavire il cane che si morde la coda.

Ho letto di paragoni tra cassiere  di supermercato e maestre, cosa che mi sembra perfettamente in linea col sentire comune: il supermercato deve restare aperto perché così posso mangiare, la scuola deve restare aperta perché così posso lavorare. Servizi essenziali, insomma.

Proprio come le discoteche ad agosto.

Tutto sommato, secondo il mio personalissimo punto di osservazione (la mia timeline Facebook):

  1. della sicurezza dei propri figli (e della propria) non frega a nessuno;
  2. di cosa ci vadano a far a scuola frega ancor meno: basta che non stiano in mezzo.

Lo so bene che c'è se i bambini non vanno a scuola per il lavoro è una catastrofe ma pare che il 2% circa di possibilità di morire per la congiuntura non sia una variabile che entra nel ehm, mi vergogno un po', ma chiamiamolo pure 'ragionamento'.

Non ho in simpatia i ministri dell'istruzione, i funzionari del ministero (l'algoritmo segreto dei trasferimenti della "aperte virgolette" buonascuola "chiuse virgolette" me lo ricordo ancora), i provveditori, i presidi e gli inamovibili ed irresponsabili professori.

Ma non si sono materializzati lì per caso.

Sono il prodotto dell'evasione fiscale, dell'assenza di una Politica per l'Istruzione, della colonizzazione partitica dell'Istituzione e di centomila altre cause, sindacati inclusi: compilare la più banale domanda è cosa così complicata da richiedere per forza la loro consulenza.

In pieno stile Novax e negazionista del Covid aggiungiamoci pure le assurdità sulle vacanze e sugli orari di lavoro dei docenti.

Un insegnante di scuola primaria prende 1300 € al mese. 

In Germania esattamente il doppio.

Per un orario teorico di 24 ore settimanali.

Che, nella pratica, superano abbondantemente le 40.

E, no: non dettaglio come ci arrivo: chi si vuole informare sarà bravo a sommare alle ore di lezione quelle di collegio, riunione, correzione compiti, preparazione lezioni, incontri con psicologi, assistenti sociali, , gruppi operativi, consigli di classe, corsi di aggiornamento, corsi di formazione, intergruppo, ricevimento, eccetera. 

40 è una stima per difetto.

E in tempi di Didattica a Distanza anche di più, domeniche incluse.

Secondo i miei fallibilissimi calcoli la paga oraria di un docente di scuola primaria (1300/40x4,5) è appena superiore ai 7 € l'ora che salgono a 8,5 se si 'sottraggono' i mesi di chiusura delle scuole, luglio ed agosto.

Non vorrei ridurre le mie considerazioni sulla Scuola a questa banalità ma è senz'altro un buon punto di partenza.

Al di là della questione Covid, io mi chiedo come si possa anche solo immaginare che un Organismo che malfunziona con meno della metà delle risorse minime possa in pochi mesi garantire il raddoppio degli spazi e qualcosa di diverso da una difesa burocratica fatta di autorizzazioni, autocertificazioni e portarsi da casa disinfettante, mascherine fpp2 e visiere in un alternarsi di ordini e contrordini.

Pure per il test sierologico ci si è dovuti arrangiare motu proprio, ma, secondo la stampa, gli insegnanti disertano, defezionano, si rifiutano.

Come ci si può rifiutare di obbedire ad un "ordine" che non è mai stato dato?

Mi sto dilungando troppo.

Cari genitori che non vedete l'ora di mandare a scuola i pargoli, se avete una così scarsa considerazione e rispetto per i docenti a cui li affidate non sarebbe meglio pregare che la vostra scuola non apra?

Non pretendo che smettiate di evadere le tasse o che votiate per spostare la spesa pubblica dal sussidio all'investimento,  o che votiate qualcuno che dica chiaro e tondo cosa vuole farne della Scuola per rendere i vostri figli capaci di trovare, prima ancora che uno straccio di lavoro, una via di Libertà nei meandri della Vita.

Ma almeno che vi decidiate: gli insegnanti sono vostri nemici da combattere o alleati da sostenere?


Andreotti diceva che in Italia ci sono due tipi di pazzi: quelli che pensano di essere Napoleone e quelli che vogliono far funzionare le Ferrovie dello Stato.

Non sono sicuro del mio stato di salute mentale ma di sicuro non ho una ricetta per la Scuola Italiana.

Occorre un forte mandato Politico, studiare molto, pensare e saper illustrare l'Idea di Scuola e di Società a cui la Scuola dovrebbe o dovrà preparare, essere capaci di gestire la complessità delle norme, saper restituire un valore ad un corpo docenti anziano (che non ha fatto il giuramento di ippocrate e nemmeno ha firmato per farsi picchiare dagli alunni)  e risolvere il nodo del reclutamento che ora è pura letteratura kafkiana (l'ho già detto?)

Niente basterebbe che.

Anzi, uno: basterebbe che iniziaste a comportarvi da genitori adulti e non da clienti picciosi.

Auguri a tutti, buon inizio di Anno Scolastico, il più difficile dal 1944/45.



PS: Le mie pagelle al Liceo non avevano mai un voto inferiore a 7, credo, in IV ginnasio, di aver preso tutti 7 e due 8.

Al liceo fioccarono gli 8 e anche qualche 9.

La cosa che non perdonerò mai ai miei insegnanti è di avermi consentito di prendere 8 e 9 studiano al più un'ora e mezzo al giorno.

Soprattutto al liceo non ricordo di aver mai studiato dopo le 16:30 - 17:00.

Una farsa.

30 agosto 2020

Sono Don Nunzio: Vita e pensiero di don Annunzio Gandolfi, il prete con i baffi

La lettura di “Sono Don Nunzio” di Andrea Padoin è stata piacevole, per me quasi obbligatoria.

Ho incontrato le parole di Don Nunzio Gandolfi molti anni prima di entrare nella Comunità Capi del Villanova 1 (il Gruppo Scout in cui ha prestato Servizio per moltissimi anni) dove non solo la Memoria concreta dell’Uomo e del Sacerdote ma soprattutto quella del capo è sempre viva e di ispirazione per Capi e Ragazzi.

Certo, il mio è stato un incontro indiretto, attraverso i suoi scritti e in particolare il racconto “una fibbia scout” nella raccolta “Fuoco di Bivacco”.

Per molti anni ho creduto che fosse una storia vera e non un suo racconto.

Tuttavia, un episodio del genere è successo davvero sul fronte del pacifico quando uno scout giapponese ha salvato la vita ad uno scout americano.

Insomma, ho letto Don Nunzio prima di sapere che fossero parole di Don Nunzio.

Entrare nel Villanova mi ha messo in contatto con ben altro.

Uno Stile ormai raro, una Comunità forte, una tradizione feconda e non sterile.

Quello che intendo per Memoria Concreta.

Ho incontrato Don Nunzio anche in un romanzo di Enrico Brizzi, nei cimeli del corridoio della Canonica, nella biblioteca di libri scout (in cui ho recuperato una preziosissima copia di “Stella in Alto Mare”) e anche in quel piccolo miracolo rappresentato dalle casse di munizioni usate dal reparto come casse di squadriglia senza che gli E/G abbiano idea di cosa contenessero durante il secolo scorso.

Quindi mi sono procurato una copia di “Sono Don Nunzio” e ho iniziato a leggerla in vacanza.

Il libro è curato in grafica ed impaginazione, racconta la vita di Don Nunzio attenendosi a fonti sempre ben esplicitate nelle note a piè pagina.

L'autore sa il suo mestiere.

L'aneddotica è ricondotta alla sua funzione di alleggerimento e descrittiva di un carattere ed una personalità di spessore.

Non viene narrata solo una vita ma anche un Servizio, un’idea, un’azione concreta di educazione e fede lunga tutta una vita.

E' uno che lo Scautismo lo ha vissuto e ci ha pensato su per poi scriverne e tornare a viverlo.

Ora, domandiamoci a cosa serve scrivere, leggere e meditare sulla biografia di un Sacerdote e capo Scout.

Scrittore prolifico, capo di spessore, la sua azione ha dato un contributo significativo sia alla teoria dello Scautismo che alla vita di centinaia di persone che hanno usufruito, direttamente ed indirettamente, del suo Servizio.

Chiediamoci quale sia il fine utile, quello che va al di là del doveroso omaggio, quello che deve essere riproposto ai Capi e ai ragazzi.

Don Nunzio, bolognese, incontra lo Scautismo assieme alla sua Vocazione, da Partigiano, negli anni della Lotta per la Liberazione dell’Italia dai Nazifascisti.

Nel dopoguerra è uno dei giovani Capi che hanno rimesso in moto lo Scautismo italiano.

Partecipa a tutti i Jamboree, scrive, cammina, organizza unità, in due parole coniuga pensiero ed azione Scout su molti fronti.

Perchè un libro sulla vita di quest’uomo?

E, soprattutto: a cosa servirebbe ad uno Scout leggere questa storia?

Al primo perchè rispondo con la parola Memoria.

L’Agesci è una associazione in cui, nonostante la straordinaria forza e impegno di Capi e ragazzi la Memoria è troppo spesso selettiva.

Il Pensiero di B.P. è diffuso solo mediocremente, si sa più o meno qualcosina sulle Aquile Randagie, a macchia di leopardo si conosce Don Peppino Diana e di Don Minzoni s’è persa ogni traccia.

Ma dopo B.-P., dopo le Aquile Randagie qualcosina sarà pur capitata:

la ricostruzione dello Scautismo, il 1968, la nascita dell’AGESCI sono state rese possibili dalla Testimonianza e dal Servizio di persone come Don Nunzio.

Questo percorso dovrebbe essere noto ad ogni capo.

Una interpretazione vorrebbe che quello di Don Nunzio sia uno Scautismo d'altri tempi.
Ma ci vuol poco a smontarla.
Negli anni 40, 50, 60, ma anche 80 e 90 del Secolo Scorso lo Scautismo di Don Nunzio era lo Scautismo di frontiera, per definizione.
Era lo Scautismo dell'estrema periferia industriale del pur ricco Nord.
Dov'è (e io so che ancora c'è) lo Scautismo di frontiera, quello di rottura con le convenzioni?

Vorrei proprio vederli quelli che si son oscandalizzati del Calendario Agesci 2020 perchè alcuni fazzolettoni di ragazzini gli sembrano poco stilosi partecipare ad una operazione di Frontiera equivalente alla creazione dell'AGESCI e l'introduzione della Coeducazione negli anni '70... negli anni 20 del XXI Secolo.
Don Nunzio ha rappresentato il rigore, ma anche l'innovazione, il guardare lontano e poi ancora più lontano.

Infine, la seconda questione: l’utilità per il Servizio di Oggi e di Domani di libri come questo.

Ritengo che libri come "Sono Don Nunzio" siano uno strumento educativo. 
Per Capi, in primis.
La Vita di Don Nunzio è più di un esempio e per un capo leggerne la testimonianza dovrebbe avere una valenza che va oltre la Tecnica o il Metodo.
Mi riferisco ad una dei suoi aforismi:
"Lo Scautismo deve essere come il traboccare di una esperienza che non può lasciare come prima."
Ecco, questo è un passaggio delicato.
I capi giovani con cui sono venuto in contatto in questi anni sono molto in gamba.
Molto più di me alla loro età.
Ma limitatamente all'interno del loro Servizio in Unità.
E' nella scelta Politica, intesa come sentirsi parte di una Associazione Nazionale che persegue certi valori, il punto debole.
Servirebbe un piccolo saggio dedicato per illustrare la complessità di cause ed effatti: Le unità in mano a Capi al meglio col CFM, i Capi Formati che sono decimati dalla Congiuntura, la difficoltà a cambiare modello di formazione, il relativismo politico, la crisi della Democrazia e della Partecipazione.
Si è sempre più bravi capi durante le ore di Attività, sempre meno Scout nel resto del tempo.
La dimensione associativa e la responsabilità pubblica sembrano svanite nel nulla.
Stampa Associativa, manualistica, questi sconosciuti...
Ma sto generalizzando, una cosa senz'altro stupida. 
E, in ogni caso, non è certo per trascuratezza, cattiva volontà, o ignoranza che la dimensione Politica dello Scautismo perde terreno.
Ecco, leggere "Sono Don Nunzio: Vita e pensiero di don Annunzio Gandolfi, il prete con i baffi" è un buon manuale per giovani capi, quando si deve andare oltre quello che "il libro non addita".






27 agosto 2020

Oppure, di Costantino Dilillo


Ha senso questa recensione?

Beh, prima di tutto conosco personalmente Costantino e non posso certo essere completamente obiettivo: un ateo e un cattolico che, quasi alla Peppone e Don Camillo si scontrano su tutto eccetto che sul diritto dell'uomo e sempre pronti a fare fronte comune contro fascismi vecchi e nuovi.

Poi, perchè leggo malvolentieri di cose materane.

E, anche se i racconti di "Oppure" sono di ben altro respiro (e ambientazione) di quello delle lettere paesane parliamo comunque di un Cuore Lucano e mi pesa leggerne i battiti.

E' la stessa idiosincrasia che mi ha portato a smettere di leggere anche la bella rivista Mathera ma per "Oppure" ho fatto una eccezione. 

Ho gustato i racconti di Costantino in un pomeriggio d'estate trascorso tra le colline della Basilicata, con un temporale estivo in lontananza, a nord e falchi in cielo.

Il piccolo libro è piacevole anche alla vista e al tatto, con l'immagine di copertina dello stesso Costantino e una grafica curata.

Dentro c'è più degli undici racconti di taglio diversissimo ma di impronta comune:

L'uomo e gli ostacoli che l'uomo pone a se stesso nella ricerca e nel conseguimento non della banale felicità, ma di una società equa che persegua solidarietà, razionalità e conoscenza.

L'ironia nelle parole di Costantino non è mai fine a se stessa ma è chiave di riflessione, disincantata spesso, senza speranze mai.

Senza spoilerare, tra ricordi d'infanzia e anche qualche gustoso episodio (autobiografico) più recente, Costantino ci fa avvicinare all'ingiustizia vissuta dai bimbi, al pregiudizio, al sogno, al tradimento e anche alla, direi, inevitabile gestione del Potere.

Ma anche al paradosso come via d'uscita, come soluzione, come minimo passo avanti verso una modernità che ci ha lasciato indietro.

O, più precisamente, che abbiamo maldestramente fuggito ricevendo in cambio emigrazione, arretratezza, tasse sui rifiuti e una lunga teoria di negozi di souvenir.

A questo punto devo proprio procurarmi 'un greto di ciottoli'...








23 agosto 2020

La Trilogia delle Cronache Materane di Pino Oliva: nostalgia dell'Infinito



Sono riuscito a recupeare l'ultimo volume della Trilogia delle Cronache Materane (e Metapontine) di Pino Oliva, tre graphic novels ambientate a Matera tra gli anni '70 ed '80.
Sono di una decina di anni più giovane dell'autore ma ho un ricordo abbastanza nitido dei primi anni 80 a Matera, pur vivendo quasi sempre nell'estrema periferia nord.
Quest'estate ho riletto le prime due opere e poi a seguire l'ultima e non è stato affatto difficile tornare alla Serra Rifusa dei primi anni '80, alle strade sterrate, ai lunghi giorni d'estate passati all'aperto e ai successivi anni passati tra Scout e la Sisley di via Roma.
Uno dei punti di contatto con quanto raccontato da Pino Oliva è la Notte del Terremoto del 1980, ancora perfettamente ancorata alla memoria, anzi, punto cardine iniziale dei ricordi della mia infanzia.
Ho provato una lunga serie di malinconiche sensazioni di nostalgia nelle descrizioni, nei palazzi, nelle inflessioni che Pino riesce a trasmettere nei suoi disegni.
E' vero che in arte al Liceo prendevo 8 e 9, ma non mi si chieda una critica 'artistica' oltre il gradimento, l'emozione, il piacere che ho provato nel leggere e rileggere queste graphic novels nostrane.
Credo che sarebbero una lettura piacevole ed interessante anche per i non materani perchè narrano di una infanzia e di una adolescenza uniche, non per l'esperienza soggettiva ma per la peculiarità ed unicità dei luoghi di ambientazione.
Perchè Matera è Sud, Sud profondo, ma è un luogo differente sia dalle città Campane che dai paesoni pugliesi, isolata anche da gran parte della Violenza di quei tempi: nella Matera della mia infanzia ci si sentiva sicuri come poi mi sono sentito forse solo in Giappone.
Inoltre era una Comunità sufficientemente coesa e, col senno di poi, nel pieno di un periodo di prosperità che sarebbe durato lustri basato sulla massiccia presenza di uffici pubblici, sedi provinciali di grandi imprese e anche un po' sul distretto industriale della Val Basento.
Ancora priva di quartieri dormitorio, non ancora turistica, la Città, nuova di zecca, era alla fine della prima fase di assestamento dopo l'evacuazione dei Sassi.
Insomma, uno dei migliori posti in cui crescere, negli anni di piombo.
Una gioventù nuova in una città nuova, ma sempre materana, sempre legata alla sua comunità benigna  (o così sembrava a me a quei tempi).
Di mio la recensione potrebbe anche finire qui, per restare nell'asettico e nell'oggettivo.
Ma voglio cogliere l'occasione per tornare su uno dei punti che Pino Oliva riprende spesso in "Tutto Succederà": ogni emigrazione è una sconfitta.
Quando ero bambino le strutture del Centro di Geodesia Spaziale mi sembravano la Fortezza delle Scienza di Mazinga e mi ero illuso che una laurea in Ingegneria Aerospaziale sarebbe bastata per garantire il ritorno.
Di pipponi sull'emigrazione e relativa difficoltà di tornare è pieno il web nonchè anche qualche scaffale di libreria.
Ve ne risparmio un altro.
I disegni di Pino Oliva, i paesaggi, i particolari urbani, così delicati e struggenti, mi hanno dato le stesse emozioni di quando scanso certi luoghi nelle mie giornate materane.
Già.
Li scanso.
Non riesco più a fare passeggiate nel Parco della Murgia, nè ho più voglia di un trekking al Villaggio Saraceno (sì,  la voce su wikipedia l'ho iniziata io).
Se posso, evito anche di affacciarmi sui Sassi e ai ricordi delle uscite scout sotto Murgia Timone.
Perchè?
Perchè è il prezzo della Sconfitta, il prezzo della mia emigrazione in cui il vantaggio e la grande fortuna di poter tornare varie volte l'anno non fanno che mantenere vivo il disagio.
Il disagio di assistere come fantasma ad una Vita possibile, ambita, eppure inconciliabile con la realtà.
Alla fine resta solo la nostalgia dell'infinito, in un eterno addio ai Monti che si ripete ad ogni stagione, così quando mi trovo sulla nuova statale a 4 corsie diretto verso Altamura, a stento mi volto a guardare casa mia, ultimo porto prima della traversata, e tengo fisso lo sguardo sulla Pala Eolica che svetta proprio in fondo alla strada.
Superata quella è già Puglia e Matera si trasferirà sul piano onirico in poche ore.
Fino alla prossima discesa.
O fino alla prossima volta che vorrò sfogliare e rileggere le mie preziose copie delle Cronache Materane di Pino Oliva.

20 agosto 2020

Non c’è fede che tenga: Manifesto non laico contro qualche cosa di sconosciuto all'autrice



Al contrario di quanto il titolo di questa recensione possa far presagire io concordo quasi completamente con l'autrice.

Da Cattolico Praticante.

Il mio titolo, tuttavia, ritengo sia azzeccato a causa dell'idea di fondo alla base del libro e anche per qualche strafalcione più sorprendente che antipatico in un testo comunque di valore.

Per esempio, il Califfato Sunnita è una cosa, l'Impero Ottomano un'altra: un po' come confondere Impero Romano d'Oriente e Sacro Romano Impero.

Poi, quando scrive "Oggi sono inaccettabili molti comportamenti che fino a una o due generazioni fa erano la norma nelle relazioni genitori-figli, e in alcuni contesti culturali (non è necessario andare lontano, basta rimanere in Italia, soprattutto nelle regioni meridionali) sono ancora perfettamente accettati comportamenti – come alzare la voce o “strattonare” i bambini – che in altri non sono più tollerati."

Mi pare che di laico ci sia ben poco.

Concordo pienamente con la necessità che il pensiero Laico si diffonda quanto più possibile nell'Umanità, cominciando dall'Italia.

La Laicità, però è inclusione di tutti gli individui in un insieme comune su vari piani (fisico, legale, diritti, per citarne solo i principali)

Il libro si legge in un paio di giorni ed è denso di appasionate considerazioni ma ha una pecca, anzi, visto che ci siamo, un peccato originale di fondo.

L'autrice non considera la religione in maniera molto diversa dalla superstizione e una Messa/processione in maniera molto diversa da una fantasia sessuale più che lecita, purchè consumata in privato.

E che diventa reato se avviene in pubblico.

Mi metto un po' nei suoi panni pensando al Calcio: mi secca molto che agli hooligans si conceda di distruggere treni, autogrill, commettere atti di violenza e sequestrare interi quartieri costringendo mezza Polizia a presidiare stadi e percorsi, eccetera.

Ma non mi passa nemmeno dall'anticamera del cervello di obbligare squadre e tifosi a giocare il campionato in privato, senza nessuna delle connotazioni di manifestazione pubblica.

Invece, il battesimo viene definito molto laicamente "iscrizione forzata a un’associazione di un minore".

Il che, a parer mio, giustifica pienamente il titolo del mio post.

Se il mio andare a Messa viene considerato del tutto equivalente ad una Partita di Calcio o a uno spettacolo teatrale io sono escluso e la Laicità è già finita.

Non arriviamo nemmeno alla differenza che c'è tra battezzare un bambino come gesto educativo che può serenamente portare, 13 anni dopo, ad una dichiarazione di ateismo e l'indottrinamento che porta al Burka.

Più che di voler violare la libertà religiosa constato la completa incompetenza in merito.

Cosa dovrei dirle quando facciamo la preghiera di ringraziamento prima dei pasti? 

"Tu no perchè non capisci"

E quando vado a Messa (e ogni tanto vuol venire) ? "Tu no perchè sarebbe una violazione dei tuoi diritti?" Oppure "Papà va in un posto in cui potrai venire dopo i 18 anni se proprio ti piace?"

E quando vedremo un film, leggeremo un libro, e si dovrà discutere di valori, potrò o non potrò parlare di quello che rappresenta il Vangelo per la sua famiglia?

Cinzia Sciuto ha scritto un libro che regalerei volentieri, ma con i caveat scritti qui sopra al posto della dedica.

Purtroppo questo atteggiamento, questa forma mentis, non favorisce la Laicità, tutt'altro.

I bei ragionamenti, la logica e la scienza che sta dietro gran parte del testo viene avvelenata da un atteggiamento fondamentalista e di chiusura.

Possiamo avere leggi sul divorzio, sull'aborto e sul fine vita, ma non possiamo pretendere di avere dei Cattolici indistinguibili, nella vita pubblica, dai militanti dell' UARR.

E, mi raccomando: chiusi nelle catacombe chè se parlano ... Guai!

Inoltre, rilancio:

è vero che il diritto è del singolo essere umano, ma non devo certo affannarmi a correlare la concezione del primato del singolo su ogni interesse collettivo (vi dice niente la recrudescenza del Covid, la tolleranza verso chi non usa le mascherine ecc.?) con la crisi della democrazia, le disuguaglianze galoppanti e la crisi climatica per non parlare dell'epidemia di ansia ed edonismo che sta strangolando le democrazie occidentali.

La laicità di Cinzia Sciuto, oltre ad essere viziata da un mix di rifiuto e di ignoranza di parte del tema trattato è peggio che sbagliata: è obsoleta.

13 agosto 2020

Reelight Nova, ossia come ho imparato ad amare le correnti parassite

In (google traslator's) english at bottom

Disclaimer: post logorroico

Oggi parliamo di luci per bicicletta in ambito urbano dove è molto più importante essere visti che vedere.

Ci sono varie soluzioni: la classica dinamo che produce energia strisciando sul copertone (con gran fatica del ciclista e scarsa funzionalità sotto la pioggia), la più moderna dinamo installata nel mozzo della ruota  (che consente di viaggiare con le luci sempre accese ed uno sforzo supplementare trascurabile), le luci a batteria (di varie forme e potenze: si va dalla piccola intermittenza fino al riflettore da mille e passa lumen) e le luci a correnti parassite.

La dinamo semplice, francamente, è inutilizzabile. Si fa una gran fatica, se piove la dinamo spesso slitta sul copertone e la luce che fa è piuttosto fioca (a meno di percorrere una lunga discesa o avere i muscoli di un professionista). Di sicuro non si è incentivati a tenerla sempre in funzione.

Le luci a batteria funzionano molto meglio: sono economiche e anche molto potenti. Inoltre, si può aggiungere facilmente una seconda luce intermittente (l'intermittenza aumenta molto la visibilità del ciclista, sia di giorno che di notte).

Problemi: bisogna ricordare di accenderle e... le batterie, come Murpy ricorda, si scaricano sempre nel momento del bisogno.

E pure ricorrendo alle batterie ricaricabili non è che siano poi tanto ecologiche.

Per una bici nuova consiglio, quindi, la dinamo a mozzo.

Le luci sono sempre accese e non bisogna ricordarsi di farlo.

Lo sforzo aggiuntivo sui pedali è trascurabile.

Inoltre, certi modelli di fari a led restano accesi qualche minuto anche quando ci si ferma garantendo comunque la visibilità del ciclista.

Insomma, fosse per me: dinamo al mozzo per tutta la vita.

Ma anche la dinamo al mozzo non consente, in genere, di usare contemporaneamente una luce fissa (per vedere) ed una intermittente (per essere visti)

Agli albori della mia avventura di biker to work, infatti, avevo due lucette a batteria che usavo in modalità intermittente.

Poi, ho scoperto le Reelight.

Reelight è una azienda Danese basata ad Aarhus specializzata in luci per biciclette.

Il loro modello di punta è una luce a corrente parassita che si applica al mozzo della ruota. 



Ai raggi della stessa ruota si applica un magnete (io ne metto sempre due), così, quando il magnete passa vicino alla luce quest'ultima si accende.




Ovviamente la luce anteriore è bianca e quella posteriore rossa: ne esistono varianti fisse e varianti lampeggianti, io uso queste ultime.

Bastano un paio di pedalate per far entrare il sistema in funzione. Non ci si deve dimenticare di accenderle e non si deve cambiare la batteria.

Bene, adesso, però andiamo al sodo.

Che cosa succede se non avete una dinamo a mozzo e avete bisogno di una luce normale? E che succede se volete anche la sicurezza di potervi fermare mantenendo le luci accese?

Reelight he pensato a questo caso con il sistema di luci che vi presento: NOVA

Il sito di Reelight è chiarissimo e ha un sacco di documentazione.

Si tratta di un sistema concettualmente simile al precedente ma che sfrutta il movimento dell'intero cerchio della ruota e non solo l'interazione con singoli magneti.

Prima di tutto mi fa piacere segnalare la ridottissima quantità di plastiche presente nella confezione, è quasi tutta carta:






E poi mi sembra davvero azzeccata l'idea di usare la carta dell'imballo per scriverci il manuale delle istruzioni.

A onor del vero Reelight sconsiglia l'uso di questo sistema per le MTB, ma non ho avuto difficoltà nè col montaggio nè con le prestazioni: se la dinamo non è sufficientemente vicina al cerchio le prestazioni della lampada ovviamente ne risentono ma nonostante gli pneumatici maggiorati rispetto ad una bici da città l'intensità del fascio luminoso mi sembra più che soddisfacente.

Dopo pochi minuti di pedalata, quando ci si ferma, sia il faro anteriore che quello posteriore entrano in modalità lampeggio.



Quindi, la ruota gira e l'interazione coi magneti nella dinamo induce, appunto, la produzione di corrente.

Controindicazioni?

Beh, non sono certo economiche e temo che siano piuttosto semplici da rubare.

Ovviamente se abitate in campagna o dovete fare lunghi tratti non illuminati avete anche bisogno di vedere dove puntate la ruota e Nova potrebbe non fare al caso vostro, ma se abitate in città il problema non si pone.

Detto questo l'assenza di parti in movimento implica una durata davvero elevata associata ad una ancora più elevata sicurezza generale: girare sempre con una coppia di luci una accesa e l'altra lampeggiante incrementa parecchio la visibilità del ciclista e la sua sicurezza.

Un plauso particolare al servizio clienti: uno dei cavetti in dotazione era difettoso e me ne è stato spedito un'altro con tempi degni di Amazon Prime.

Del resto, visto che usano la stessa tecnologia della mia cucina (a induzione) non potevo che trovarmi bene.


#ReelightMyFire

#reelightnova


Disclaimer: talkative post

Today I'll talk you about bicycle lights in an urban environment where it is much more important to be seen than to see.

There are various solutions: the classic dynamo that produces energy by crawling on the tire (with great effort of the cyclist and poor functionality in the rain), the most modern dynamo installed in the wheel hub (which allows you to travel with the lights always on and an effort additional negligible), battery-powered lights (of various shapes and powers: ranging from small flashing up to a thousand-and-one lumen reflector) and eddy current lights.

The simple dynamo, frankly, is unusable. It makes a lot of effort, if it rains the dynamo often slips on the tire and the light it makes is rather dim (unless you go down a long descent or have the muscles of a professional). Certainly there is no incentive to keep it running all the time.

Battery powered lights work much better - they're cheap and very powerful too. In addition, a second flashing light can be easily added (the flashing greatly increases the visibility of the cyclist, both day and night).

Problems: you have to remember to turn them on and ... the batteries, as Murpy remembers, always run out in time of need.

And even using rechargeable batteries is not that they are all that ecological.

For a new bike I recommend the dynamo hub.

The lights are always on and you don't have to remember to switch on.

The additional effort on the pedals is negligible.

Furthermore, certain models of LED headlights remain on for a few minutes even when you stop, still guaranteeing the cyclist's visibility.

In short: dynamo hub for life.

But even the dynamo hub does not generally allow to use a fixed light (to see) and an intermittent light (to be seen) at the same time.

At the beginning of my biker to work adventure, in fact, I had two battery lights that I used in intermittent mode.

Then, I discovered the Reelights.

Reelight is a Danish company based in Aarhus specializing in bicycle lights.

Their main product is an eddy current light that applies to the wheel hub.

A magnet is applied to the spokes of the same wheel (I always put two), so when the magnet passes close to the light it turns on.

Obviously the front light is white and the rear light red: there are fixed variants and flashing variants, I use the latter.

It only takes a couple of rides to get the system up and running without risks to forget to turn them on and change the exausted battery.

Well, now, let's get down to business.

What if you don't have a hub dynamo and you need a normal light? And what if you also want the security of being able to stop while keeping the lights on?

Reelight has thought of this case with the lighting system that I present to you: NOVA.

Reelight's site is crystal clear and has a lot of documentation.

It is a system conceptually similar to the previous one but which exploits the movement of the entire rim of the wheel and not just the interaction with individual magnets.

First of all I am pleased to report the very small amount of plastic in the package, it is almost all paper.

And then the idea of using the packaging paper to write the instruction manual seems to me to be really appropriate.

To tell the truth, Reelight does not recommend the use of this system for MTBs, but I had no difficulty with either assembly or performance: if the dynamo is not close enough to the rim, the performance of the lamp obviously suffers, but despite the larger tires. compared to a city bike the intensity of the light beam seems to me more than satisfactory.

After a few minutes of pedaling, when you stop, both the front and rear lights go into flashing mode.

Thus, the wheel turns and the interaction with the magnets in the dynamo induces the production of current.

Contraindications?

Well, they're certainly not cheap and I'm afraid they're pretty easy to steal.

Obviously if you live in the countryside or have to do long unlit stretches you also need to see where the wheel is pointing and Nova may not be for you, but if you live in the city the problem does not arise.

Having said that, the absence of moving parts implies a very long duration associated with an even higher general safety: always turning with a pair of lights, one on and the other flashing, greatly increases the cyclist's visibility and safety.

A special applause to customer service: one of the supplied cables was faulty and another one was sent to me with times worthy of Amazon Prime.

After all, since they use the same technology as my (induction) kitchen  I couldn't help but feel comfortable.

1 agosto 2020

Navigare con le Stelle: "Queste Verità" di Jill Lepore



Ho appena terminato la lettura di "Queste Verità, Una Storia degli Stati Uniti d'America".
E' stata una impresa impegnativa, dato che parliamo di un testo di quasi mille pagine.
Mille pagine di ossigeno, di apertura mentale, di scoperta, di meraviglia.
Considerando la quantità di tomi di storia che mi sono sciroppato negli ultimi 35 anni sono rimasto a bocca aperta in numerose occasioni.
Una l'ho già trattata recentemente, non mi ripeterò.
Mi sono sentito molto spesso, più superficiale che ignorante.
Pur avendo letto "Storia della Guerra Civile Americana" di Raimondo Luraghi, in due volumi due, mi sono reso conto di non aver inquadrato correttamente la questione dello schiavismo e del razzismo.
Pur avendo letto "Cittadini in Uniforme" di Ambrose non ho mai inquadrato correttamente la questione del nazionalismo dei cittadini bianchi poveri nè quella delle armi.
Pur avendo letto "Il Prometeo Liberato" di Landes non ho mai riflettuto a sufficienza sulla contraddizione interna alla Società Tecnologica per Antonomasia in cui imperversa il creazionismo (e il negazionismo del covid-19 sta facendo strage proprio in questi giorni).
Jill Lepore mi ha aiutato ad unire i puntini, tracciando le linee di un grandioso affresco di civiltà basata, tuttavia, su contraddizioni, violenza e schiavitù.
Credo che un Europeo interessato alla Politica e alla Storia dovrebbe correre a leggere questo libro.
Non ho metri di paragone per suggerire questo invece di un altro testo, ma insisto sull'esemplare lavoro di approfondimento che un Europeo non riuscirà a svolgere facilmente in quanto la descrizione della Società Americana e la sua Evoluzione difficilmente si trova in testi specialistici come quelli da me prima citati.
Ad esempio, ho capito di aver sempre sottovalutato la questione razziale proprio perchè quello che i romanzi (da Tom Clancy a John Edward Williams passando per Kent Haruf) e le serie TV (da Star Trek a Better Call Saul) trasmettono al lettore europeo non ha nulla a che fare con la realtà.
La questione razziale  (che non affronterò di certo qui) E' la Storia degli Stati Uniti, ancor più della questione delle Armi.
E' la Storia di una lotta per la vita e la libertà che si è intrecciata con quella delle Donne per la Parità di Diritti (e a volte la Parità di diritti per gli afroamericani e quella per le Donne e quella per le persone LGBT si sono pesantemente ostacolate a vicenda).
E del fatto che tra i più feroci (ed efficaci) avversari dei diritti delle donne ci siano state tante donne?
Cercate un po' di informarvi su Phyllis Schlafly, una donna dalle grandi capacità politiche e dall'acume strategico di un Eisenhower, ferocemente avversaria del femminismo (e con più battaglie vinte che perse nel carniere).
E cosa dire del mix di laicità dello Stato e fervore di religioso fondamentalismo (protestante)?
Jill Lepore ci mette in guardia sulla fallimentare politica di demonizzazione e svilimento delle istanze religiose e, più in generale, dalla palude letale della polarizzazione elettorale: anche in caso di vittoria di una parte non porta a niente, quando l'unità di misura è il progresso della Nazione.
Piccola provocazione: secondo Lepore, in pratica, la sinistra 'alla Left' è strategicamente più dannosa per la Laicità dello Stato del cuoreimmacolatodimaria di Salvini.
Non mi sento in grado di scrivere una recensione completa di Queste Verità: è un'opera troppo complessa per essere analizzata in maniera ragionevole da un dilettante.
Mi limito a riassumerne i caposaldi:

  • consente al lettore europeo di comprendere gli USA secondo livelli di complessità specialistici;
  • fornisce una chiave di lettura dell'evoluzione della Democrazia nei singoli paesi occidentali;
  • fornisce strumenti di speranza per  il futuro legati proprio alle cause della crisi attuale.
Nell'anno più nero della Storia degli USA (e nel resto del mondo Occidentale non va molto meglio) è un libro necessario.
Non teme la complessità, anzi, la usa come esca per i lettori.
Non è un libro ipocrita ma descrive con impietosa crudezza l'empietà di una Nazione che osa appellarsi a queste Verità: "Noi riteniamo di per sé evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità" nella stessa stanza in cui uomini e donne sono tenute schiave.
Soprattutto, nelle righe non scritte, ci ricorda che quanto succede negli USA è di capital importanza dal Giappone alla Nuova Zelanda, dalla Grecia all'Irlanda.
E, ora che i partiti sono morti, che siamo tutti soli, anzi, isolati nell'oceano del web infestato dagli squali dei negazionisti e delle fake news, "Queste Verità" sono una piccola guida al futuro.
Se i punti di riferimento sono andati perduti, se il GPS è manipolato dai Big Data, forse è ora di tornare ad imparare un'arte antica ed infallibile:
Navigare con le Stelle.